Oggi ricorre il trentennale del terremoto di Campania e Basilicata, divenuto “dell’Irpinia” solo dopo. Quando – dopo aver ampliato a dismisura l’area del danno e dei relativi interventi – c’era da prendere bene la mira restringendo di nuovo l’area, per dare un marchio d’infamia a una provincia che aveva, a ben vedere, la sola colpa di essere stata la più colpita nella più grande sciagura del dopoguerra.
Una sciagura, sia detto con chiarezza, che generò un numero di vittime (2.914) pari a quello delle Torri gemelle, e non di molto superiore come sarebbe potuto accadere, solo perché faceva caldo, il grande Avellino di Juary, Di Somma e De Ponti aveva vinto alla grande e tutto invogliava, insomma, alla passeggiata domenicale.
Il Presidente Pertini di fronte alle scene drammatiche del ritardo dei soccorsi tornò affranto a Roma e invocò a gran voce solidarietà. Papa Giovanni Paolo II accorso d’impulso a Balvano, una volta appreso dei morti, tanti bambini, per il crollo della Chiesa durante la Messa, invocò, con le parole della fede, che “accanto a ogni uomo che soffre” ci fosse “un altro uomo ad aiutarlo”.
Di fronte alle drammatiche immagini che fecero il giro del mondo, e grazie anche all’appello di quei due grandi riferimenti dell’Italia di allora, scaturì un grande momento di solidarietà che cambiò la vita di tante persone, chi scrive – giovane matricola di Giurisprudenza – fra questi. La Chiesa si fece popolo, il Paese si ritrovò unito, le lacrime di dolore, si convertirono ben presto in grata commozione.
Più di recente, invece, abbiamo visto realizzarsi la profezia di Eliot che prevedeva l’avvento di “sistemi talmente perfetti che nessuno avrebbe avuto più bisogno di essere buono”. E infatti, lo scorso 9 novembre, all’Aquila, alla cerimonia delle premiazioni della Protezione Civile per il terremoto d’Abruzzo nei 17 riconoscimenti per l’aiuto all’opera di ricostruzione all’Aquila mi ha colpito che ci sia stato un premio per tutti, (anche per le guardie carcerarie, il soccorso alpino e – in rappresentanza delle associazioni di volontariato – per l’associazione volontari alpini, tutti benemeriti, per carità) ma non per il volontariato propriamente detto e segnatamente per quello cattolico, Caritas in testa. Questa Protezione civile, evidentemente, è già “buona” di suo e non ha gran bisogno di volontari.
Nostalgia di Zamberletti? Un po’ sì. Ancor più dopo averlo risentito in questi giorni. “Mi sono occupato della Protezione civile in Italia, ora me ne occupo a casa mia”, mi ha detto con la sua consueta capacità di sdrammatizzare, riferendosi a una difficile situazione in famiglia di cui preferisce che non si parli.
Conservo da qualche parte la foto con lui della mia prima intervista, realizzata così, senza chiedere il permesso a nessuno, e mi vengono in mente i mille filtri della Protezione civile in versione moderna, in divisa di ordinanza e molto spesso in azione a favore di telecamera.
Ma è altro che ci preme ricordare, in questa ricorrenza, per un evento triste eppure per tanti versi indimenticabile. La nemesi storica che si è realizzata nel Paese su questo evento di 30 anni fa, sulla spinta di un odio politico e anti-meridionale montante, ha finito per gettare via con l’acqua sporca degli sprechi e delle ruberie che ci sono stati anche il bambino della solidarietà con quelle terre martoriate, che di quegli scandali e di quegli sprechi erano vittime e non artefici.
Il patto di potere all’interno delle correnti della Dc, allora tutte a guida campana (De Mita, Pomicino, Gava e Scotti) allargato ai socialisti Conte e Di Donato (senza trascurare il ruolo del Pci che con il sindaco Valenzi deteneva la guida della città di Napoli) fece sì che per aversi il via libera al flusso di finanziamenti verso l’area più colpita si dovesse dar corso a tutt’una serie di ulteriori interventi, basti pensare al solo piano per Napoli, colpita solo marginalmente dal terremoto, che comportò un aggravio di oltre 15mila miliardi in vecchie lire.
L’altro bubbone fu costituito dall’opera di industrializzazione, in gran parte fallita, anche se in pochi – scommetto – sanno che quando mangiano i Roché, i Duplo, o persino la Nutella, si tratta molto spesso di prodotti confezionati dalla Ferrero di San’Angelo dei Lombardi, utilizzando le nocciole dell’Irpinia. A testimonianza che chi non venne con l’intento di lucrare i contributi e scappare, poi in molti casi è rimasto. A differenza delle tante industrie “decotte” che vennero e chiusero subito, quasi tutte del Nord. Altro che Irpinia, ancora una volta vittima.
Purtroppo, invece, a pagare è stata proprio l’Irpinia, che ha visto dopo i primi 8-9 anni (che non potevano bastare a chiudere del tutto una ricostruzione così complessa ed estesa) rallentare il flusso dei finanziamenti per la stretta ricostruzione dei cittadini, che avevano diritto a rifarsi una casa. Tutto sommato andrebbe detto comunque, oggi, che la ricostruzione in Irpinia e nei centri più colpiti è stata realizzata, in ritardo magari, ma in modo più che soddisfacente, e per gli standard del Sud questo può già essere consolante.
A ben vedere, anzi, come ricostruisce un libro appena uscito di Antonello Caporale (“Terremoti spa”) il primo anno di emergenza all’Aquila ha avuto un’incidenza di costi pro capite (in base al numero dei senzatetto) pari a tre volte l’Irpinia. E si capisce perché. Nell’era dei “sistemi talmente perfetti” l’emergenza ha preteso di farsi anche ricostruzione (che per legge spetterebbe ai poteri ordinari) senza neanche consultare i cittadini e gli enti locali, che semmai saranno chiamati, di qui a qualche anno, a sopportare in proprio gli oneri degli espropri, per onorare le occupazioni temporanee disposte d’urgenza dalla Protezione civile.
Tutto bene, se non fosse che per ricostruire ai Comuni dell’Abruzzo, poi, è arrivato ben poco e per i cittadini manca ancora una legge organica (fatte salve le ordinanze d’urgenza della Protezione civile) legge che i cittadini d’Irpinia avevano già dopo sei mesi, la 219, con i relativi stanziamenti, che semmai si sono rivelati eccessivi.
Fatta questa difesa d’ufficio dell’Irpinia, tocca un’ultima riflessione. A chi giova dimenticarla, l’Irpinia? Non alla Chiesa certo, che si perderebbe, così, la memoria di una delle più belle pagine di unità e testimonianza del dopoguerra italiano. Ricordo i campi voluti personalmente da don Giussani a Castelgrande, in provincia di Potenza e a Nusco, in provincia di Avellino, quest’ultimo su sollecitazione dell’irpino-milanese Franco Mangialardi.
E ricordo monsignor Giovanni Nervo, primo presidente della Caritas Itaina e primo mio “datore di lavoro” al Centro di produzione "Antenna Caritas" a Pompei. E non giova dimenticare nemmeno al Paese, che proprio dalla dispersione di quel moto di unità solidale per il terremoto d’Irpinia, cedendo allo scandalismo, ha aperto una prima breccia all’unità del suo popolo che col tempo ha rischiato e rischia di diventare voragine.
Verrebbe anche da chiedere una parziale rivalutazione della classe politica di allora, finita nel vortice di una guerra fratricida che alla fine ha finito per travolgere la stessa Dc. La mente corre a un oscuro sindaco Dc di allora di un paesino dell’Alta Irpinia (Bisaccia). Parlo di Salverino De Vito, poi divenuto ministro del Mezzogiorno e autore, ormai 25 anni fa, di una legge che portava il suo nome (la “44”) che per la prima volta, e forse l’ultima, al Sud, andava a finanziare un’idea, e non i soliti noti che i soldi li avevano già.
Forse oggi, doverosamente, qualcuno si dovrebbe ricordare di lui e della sua azione gratuita. Nacquero a metà degli anni ’80 tante cooperative mini-aziende giovanili, molti neo-laureati potettero avere una chance per mettersi in proprio. Certo non bastò, e infatti, fu proprio per sostenere una piccola azienda siciliana che produceva un buon vino, ma non riusciva a commercializzarlo, che a don Giussani venne l’idea: “Ma perché non diamo vita a una compagnia di opere?”. Verrebbe da citare De André. “Dai diamanti non nasce niente. Dal letame – con rispetto parlando per il Sud, e anche per l’Irpinia – nascono i fior”.