Il ritorno di Angelica a casa sana e ben curata ha fatto esclamare di gioia e stupore tutti i giornali questa settimana: Angelica, piccola bambina nata con un peso di 550 grammi all’Ospedale S. Camillo di Roma, quando non aveva ancora passato le 23 settimane di gestazione. È un fatto di un’evidenza tale da far mutar opinione a chi propone limiti netti alla rianimazione dei prematuri nati a meno di 26 settimane dal concepimento.



Purtroppo sappiamo che è solo l’inizio di una presa di coscienza, perché in molti Paesi occidentali l’assistenza per far sopravvivere i neonati estremamente piccoli segue dei criteri diversi da quelli che si seguono per l’assistenza e per la sopravvivenza di un adulto che abbia lo stesso rischio di morte o di invalidità. Per alcuni, Angelica, perché nata troppo presto, non si doveva assistere: un adulto che cade da un balcone e appare in fin di vita invece sì. Sembra impossibile, eppure è così: vari fatti lo confermano.



Studi condotti da una ricercatrice canadese, Annie Janvier mostrano che a parità di alto rischio per la salute, tra neonato e adulto i medici intervistati tendono a trattare con meno vigore il neonato, fino all’estremo di non trattare per nulla. Ma non basta: per rianimare i piccolissimi, in alcuni Paesi si aspetta l’esplicita richiesta dei genitori, pur sapendo che questi potrebbero avere un conflitto di interessi col minore (non tutti i padri e le madri sono meravigliosi, ci insegna la cronaca) e soprattutto sapendo che alla nascita prematura e improvvisa sono entrambi disorientati e spesso sconvolti.



E i filosofi rinomati e famosi asseriscono che i neonati non sono persone come gli altri, perché mancano di capacità di “autonomia”, che secondo loro è la caratteristica che distingue gli esseri umani in “persone” e “non persone”. Ed esistono dei protocolli che invitano a non rianimare i bambini anche se hanno una possibilità non trascurabile di sopravvivere, dato che, al converso, hanno una possibilità – neanche confermata- di disabilità.

Ma Angelica è tornata a casa: ha trovato dei medici che sapevano che la sopravvivenza anche a 22 settimane è rara, ma non è impossibile: per molte casistiche è 1 su 10-15. Medici che non avevano certezze sulla prognosi in sala parto, perché alla nascita non si sa se quello sarà il bambino che ce la farà; ma hanno dato comunque una chance. Ma erano medici che sanno, come risulta da uno studio svedese, che gli ospedali che rianimano senza fare una selezione sulla base del rischio di handicap e morte, come vorrebbero i protocolli suddetti, invece di avere una percentuale maggiore di bambini con handicap, hanno addirittura una percentuale significativamente minore. Sapendo certo che esiste una soglia sotto cui non rianimare e un limite ai tentativi.

Detto questo, il discorso ci porta ben oltre i criteri e le settimane da considerare. Perché il fatto è più profondo: implica lo status di “persona” che alcuni filosofi non italiani vorrebbero togliere al neonato. Dopo averlo tolto al feto, cosa impedisce di revocarlo anche al bambino prematuramente nato, dato che ha le stesse dimensioni di un feto? Forse è questo che magari inconsciamente fa trattare il neonato differentemente dall’adulto.

 

Quest’erosione del “diritto di cittadinanza” è affermata come etica e morale in importanti riviste, e ci pone la domanda: per noi cosa è la persona? È l’essere umano in quanto tale o in quanto ha certe caratteristiche? Chi accogliamo “tra i nostri”? Tutti, oppure solo quelli che rispondono a certi dettami? È una domanda che, vedremo, riguarda anche gli adulti disabili mentali e altre categorie che un po’ alla volta si stanno vedendo negare il diritto di essere chiamati “persone”.

 

Ma la vicenda di Angelica, la gioia dei suoi genitori e il coraggio degli infermieri e medici che l’hanno curata dandole una chance, getta una luce su tutto questo: guardarla fa superare di getto la divisione in umani di serie A e B. Angelica conta semplicemente perché c’è. Questa è la sfida.