Le posizioni di Fli hanno influenzato anche la Conferenza nazionale della famiglia in corso a Milano. Ieri il ministro Sacconi ha criticato l’equiparazione sostenuta da Fini tra coppie di fatto e famiglia fondata sul matrimonio. «Senza nulla togliere al rispetto che meritano tutte le relazioni affettive che però riguardano una dimensione privatistica – ha detto Sacconi -, le politiche pubbliche che si realizzano con benefici fiscali sono tarate sulla famiglia naturale fondata sul matrimonio». Apriti cielo: “Aiuti solo agli sposi con figli” hanno subito titolato i quotidiani online.
Discusse anche le posizioni del sottosegretario Giovanardi, per il quale «la rottura della diga costituita dalla legge 40 aprirebbe la porta ad inquietanti scenari, tornando ad un vero e proprio far west della provetta dove fina dal primo momento il concetto costituzionale di famiglia andrebbe irrimediabilmente perduto». Ma secondo Pierpaolo Donati, sociologo e relatore alla Conferenza, Sacconi ha ragione.
Professore, è giusto – per usare le parole di Sacconi – che le politiche pubbliche siano tarate sulla famiglia naturale fondata sul matrimonio?
In tutti i sistemi fiscali non c’è un regime di agevolazione delle famiglie se non c’è una “legalizzazione” del rapporto attraverso il matrimonio. Quindi l’affermazione di Sacconi mi sembra pienamente giustificata. Diverso è se parliamo di servizi agli individui: quelli verso i figli non richiedono necessariamente il matrimonio tra i genitori, ma il trattamento fiscale della famiglia richiede, come dice la Costituzione, che questa venga intesa come famiglia naturale fondata sul matrimonio.
In tutto questo è significativo che agenzie e giornali abbiano fatto titoli come: «Sacconi, aiuto solo a sposi che procreano». C’è chi ha parlato di logica razzista.
C’è dietro il pregiudizio ideologico di chi vuole che per famiglia si intenda solo un qualunque aggregato di individui. In ogni caso Sacconi non ha detto: aiuti solo a quelle con figli, ma ha voluto dire che c’è un trattamento che deve essere equo nei confronti della famiglia con figli. Come ho mostrato nella mia relazione, a stare male in Italia – e solo in Italia – è la famiglia con figli.
Vuole dire che il fattore che porta una famiglia nella povertà è il fatto di avere figli?
Sì. Tutte le statistiche dimostrano che in Italia le famiglie monogenitoriali, comparate con gli altri paesi europei, stanno meglio delle famiglie con figli. Vale perfino per gli anziani soli. Se guardiamo la distribuzione della povertà per tipologia familiare nei paesi europei, vediamo che diversamente da quanto accade per Germania, Spagna, Francia, Svezia e Regno Unito in Italia i nuclei familiari senza figli, al pari di quelli monoparentali, hanno un indice di concentrazione di povertà che è il più basso d’Europa. Ma quando si passa alle famiglie con figli, l’indice Ocse è il più alto.
Quali spunti sono emersi ieri nella Conferenza a favore di un sostegno fiscale alle famiglie?
Dalla conferenza viene unanime la richiesta di una riforma fiscale a favore della famiglia. Non vuol dire accordare privilegi, ma ispirarsi a principi di equità come giustizia: le famiglie devono essere trattate allo stesso modo. Il problema è che oggi quelle che hanno più figli sono penalizzate rispetto a quelle che non ne hanno. E questa è una grave ingiustizia.
Quali sono le ipotesi di riforma sul tappeto?
Una è quella nota del quoziente familiare. Il quoziente alla francese somma i redditi di tutti i membri della famiglia, e anziché tassare questo reddito complessivo lo divide per un coefficiente dato dal numero degli adulti, dalle loro condizioni di salute e dal numero di figli. In questo modo la tassazione viene molto diminuita. Si tratta di un sistema di redistribuzione, cioè che tassa i redditi familiari e ridistribuisce alle famiglie a seconda dei carichi famigliari.
Può fare un esempio?
Se una famiglia con un reddito di 50mila euro ha tre figli, e ogni figlio vale 0,7, tre figli valgono 2,1 e sommati ai due genitori danno un coefficiente di 4,1. Quello che viene tassato è il reddito di 50mila euro diviso 4,1: vuol dire che si tassano poco più di 12mila euro. Questa è l’ipotesi invalsa fino ad oggi per tutti coloro che parlano di quoziente familiare.
E l’altra strada?
L’altra ipotesi che sta emergendo ha una filosofia molto diversa, basata sul principio di sussidiarietà alla tedesca. C’è una sentenza della Corte suprema tedesca che dice che non va tassato il reddito minimo che serve ad una famiglia per vivere dignitosamente. Non entro qui in ulteriori dettagli tecnici. Questo vuol dire che se una famiglia è composta da due componenti e sappiamo che il reddito minimo è di, supponiamo, mille euro, quei mille euro non vanno tassati. Si tassano solo i redditi da mille euro in su. Questo sistema è basato sulla creazione di una no tax area.
E dove sta la differenza?
Sta nel fatto che questo sistema non è basato su di un principio di redistribuzione equitativa: non si tassano le famiglie per poi ridistribuire a seconda dei carichi familiari, ma si parte lasciando il reddito alla famiglia. Non si tassa la famiglia avendo come riferimento il minimo necessario per la sua sussistenza e si comincia invece a tassare solo al di sopra di quel livello. Questo sistema costituisce il punto di forza di una proposta che non si chiama quoziente familiare ma “fattore famiglia”.
Quest’ipotesi è candidata a prevalere su quella del quoziente?
Ha due indubbi vantaggi. Il primo è di essere graduabile: è vero che il costo complessivo della riforma, se fatta in maniera completa, sarebbe di 16 miliardi di euro, però si potrebbe cominciare con due miliardi, poi passare a cinque miliardi, e portarla a regime, in ipotesi, nel giro di cinque anni. Il quoziente familiare invece può essere fatto solo in toto.
E il secondo vantaggio?
La seconda ragione è legata all’area di non tassabilità delle famiglie. Mentre con il quoziente familiare le famiglie incapienti non hanno vantaggi, con il “fattore famiglia” se le famiglie incapienti stanno sotto il reddito minimo hanno diritto a quella che si chiama tassa negativa sul reddito: prendono dallo Stato quello che manca per arrivare al livello “minimo” di vita.
C’è una grossa differenza nel modo di intendere il ruolo dello Stato, par di capire.
Sì, perché il “fattore famiglia” mette molto meno l’accento sulle redistribuzione statale – prelievo dalle famiglie e redistribuzione – e nel fare questo evidenzia gli svantaggi del quoziente familiare: primo, l’enorme costo di una grande macchina burocratica che per fare la redistribuzione spende una gran quantità di soldi; secondo, non è detto che arrivi là dove c’è più bisogno. Il fattore famiglia invece non richiede alcuna macchina redistributiva, lasciando i soldi nelle famiglie. È un sistema che sta piacendo a sindacati e Confindustria.
Prima ha detto che in Italia le famiglie con figli sono svantaggiate e più povere. Nel nostro paese la natalità è in calo perché il governo non aiuta la famiglia?
È una questione complessa. Nell’ultimo rapporto Cisf da me coordinato (Il costo dei figli. Quale welfare per le famiglie?, ndr) e condotto su un campione rappresentativo della popolazione italiana, abbiamo avuto modo di appurare che anche i fattori soggettivi sono importanti, se non determinanti. Innanzitutto, sappiamo che le coppie italiane hanno meno figli di quelli che desiderano. Vorrebbero in media un figlio in più, e il fatto che non ce l’abbiano dipende da molti fattori: alcuni sono economici, oggettivi, come il reddito, l’abitazione, o altri problemi di tipo materiale. Ma i fattori più importanti, che danno conto di una percentuale molto elevata – all’incirca il 60 percento – delle cause che inducono a rinunciare ad un altro figlio, sono di carattere soggettivo e fanno leva sul rischio, sull’incertezza del destino della famiglia, sulla paura per il futuro dei figli, sul timore di non essere all’altezza di educarli. Tutti motivi non economici.
Quali conseguenze ne trae?
Diciamo che le coppie giovani hanno ricevuto poco o nulla dai genitori in termini di capacità di fare famiglia sotto il profilo culturale. Si sposano, ma non sanno cosa voglia dire educare. C’è stata una grande perdita in termini di trasmissione culturale tra le generazioni. È chiaro che un sistema economico che rendesse favorevole l’avere figli, potrebbe incidere anche sotto l’aspetto psicologico. Ma non c’è una causalità lineare e non si può certamente dar la colpa solo all’elemento economico.
Il problema di un fisco a misura di famiglia riguarda solo il mondo cattolico?
Assolutamente no e nella conferenza sta emergendo molto chiaramente: chiedere un fisco a misura di famiglia non è una questione “cattolica” ma di laicità matura, positiva, che non necessariamente coincide con il punto di vista cattolico, ma che rispetta i valori naturali, i valori di una tradizione che non può essere cancellata se non vogliamo accelerare il passo verso il nostro stesso suicidio demografico e culturale.