Ci vorrebbe una Caritas anche per loro. Nell’anagrafe delle istituzioni, i sindaci andrebbero arruolati di diritto nell’elenco dei poveri, tanto sono ridotti alla frutta: senza soldi, e con la coda davanti ai municipi dei loro cittadini che chiedono aiuto; impossibilitati a spenderli anche dove ci sarebbero, per i vincoli imposti da Roma; soffocati da un centralismo esasperante proprio mentre riecheggiano proclami federalisti.
Lo Stato li considera di fatto una controparte; e come tali li tratta, dimenticando che rappresentano invece il suo sportello periferico, ultimi baluardi di una credibilità che l’apparato pubblico si è ormai in larga parte mangiato. Non è un caso che i segnali più allarmati vengano dal benestante Veneto, dove i primi cittadini pagano quella che dovrebbe essere una virtù ed è invece diventata una colpa: aver amministrato da sempre i loro bilanci con grande oculatezza, evitando di finire in rosso.
Da tempo immemorabile, Roma continua invece a elargire le risorse agli enti locali sulla base del criterio della spesa storica: come dire, ti do in proporzione a ciò che hai speso. Con il risultato che chi ha avuto (e ha) le mani bucate si vede premiato; per gli altri, vale l’antico adagio del “sempre sia lodato / il fesso che ha pagato”. Con il federalismo tutto cambierà, promette la politica. Intanto i Comuni si sono visti sottrarre la loro principale fonte di introiti: l’Ici.
Ma ormai la situazione è ai minimi termini. Il 30% dei municipi veneti si troverà costretto a sforare il patto di stabilità, ha annunciato l’Anci regionale: per molti di loro è per giunta piovuto sul bagnato, nel senso anche letterale del termine, con la disastrosa alluvione di inizio novembre. Oltre la metà ha i conti in disavanzo, dopo la perdita dell’Ici e i tagli imposti da Roma. C’è chi ha raschiato il barile per difendersi, spegnendo l’illuminazione pubblica di notte e razionando agli uffici perfino le penne biro.
Ma non c’è scampo: si sta già cominciando a sforbiciare sui servizi essenziali, e andrà ancora peggio nei prossimi mesi. Ne pagheranno le spese soprattutto le fasce deboli della popolazione, che anche nell’operoso e ricco Nordest stanno lievitando: le nove Caritas diocesane della regione hanno appena fatto sapere che le richieste di aiuto sono già più che raddoppiate nei primi sei mesi di quest’anno rispetto all’analogo periodo del 2009, e che i loro sportelli hanno fin qui erogato poco meno di 6 milioni di euro in piccoli prestiti e contributi a fondo perduto. In coda, con la mano tesa, non ci sono soltanto immigrati ma pure diversi italiani. La crisi batte, le fabbriche chiudono, i Comuni si vedono ridurre le disponibilità: quello che ricevono da Roma è in calo da dieci anni a questa parte, ed è in ogni caso inferiore al gettito prodotto nel territorio.
Di questo passo, lo scenario è decisamente preoccupante: ai sindaci non resterà che tagliare i servizi o aumentare le tariffe; qualcuno, addirittura, dovrà ricorrere a entrambi gli odiosi rimedi. Con il risultato che in una regione con mezzo milione di immigrati e 170 etnìe diverse si scatenerà prima o poi una guerra tra poveri, italiani e stranieri. E gli ultimi baluardi di fiducia nello Stato crolleranno sotto questa spinta. A quel punto, sarà la bancarotta: istituzionale, ben più grave di quella economica. Ma nessuno dei responsabili di questo fallimento pagherà il conto.