Corrado Augias su La Repubblica del 9 dicembre risponde a una lettera sul tema del fine-vita con due argomentazioni tutte da discutere. La prima è: «La Chiesa concede i suoi riti ai suicidi in base al sofisma “nell’ultimo nanosecondo potrebbe essersi pentito”». Strano giudizio: quando la Chiesa accoglie tutti non va bene; ma non va bene neanche quando mostra delle riserve magari perché il defunto non aveva manifestato in vita nessun desiderio di ricevere sacramenti cristiani. Insomma: la Chiesa come si muove sbaglia, mi sembra questa la morale, certo spendibile da qualcuno, ma non accettabile in un dibattito che porti da qualche parte.



In realtà, l’amore anche per il suicida non è un sofisma, ma è la coscienza che darsi la morte non è un atto di “libera scelta”, ma usualmente di coercizione da parte dell’ambiente, di solitudine, di disperazione. La Chiesa prende solo atto della realtà, e la realtà è che nell’epoca della disperazione, qualcuno più fragile porta a termine l’opera della cultura del nulla che insegna che “tutto quello che fai nelle tue quattro mura è non solo lecito, ma è il culmine della libertà”. A casa mia si chiama solitudine, e non la auguro a nessuno. Per questo lo sguardo della Chiesa verso il suicida più che essere condanna per un peccatore è pietà per una vittima.



La seconda è la seguente: «È un gesto di misericordia porgere la coppa di cicuta alla creatura infelice che non può più portarla alle labbra». E chi di noi non è “creatura infelice” prima o poi (bocciature, tradimenti, ecc.) e fortuna che nessuno era lì per darci la cicuta! Ed è più misericordioso chi porge la cicuta o chi si fa in quattro, stravolge le proprie giornate, impiega tempo e denaro, alza il dito contro il Potere per aiutare qualcuno a non essere più infelice?

Molti di coloro che chiedono la morte sono malati di depressione spesso non diagnosticati – anche tra quelli in fin di vita, secondo il British Medical Journal dell’ottobre 2008: nemmeno il 10% dei depressi anziani viene curato (fonte Independent agosto 2008); è allora buona medicina aiutarli a morire? E se non è depressione, non è forse solitudine, povertà, sensazione che gli altri ti sentano “come un peso”? Ed è una buona società quella che apre le porte alla morte senza impegnarsi a rimuovere le cause del disagio?



Come capite, il conflitto vero riguarda cosa si considera “libertà”. È un bivio: considerare libera la scelta di chi dice “io voglio” nella solitudine o di chi lo dice dentro un rapporto e senza coercizioni. Chi è allora più “liberale”: chi lascia aperta la via a ogni decisione solitaria (purché non disturbi gli altri) o chi si rimbocca le maniche per ripulire l’ambiente dalle coercizioni e dalla solitudine? Ma come il principio fondante la “convivenza postmoderna” non è più la fiducia ma la separabilità, quello fondante la “libertà postmoderna” non è la solidarietà ma la solitudine.

 

Ma c’è chi dice che questo non basta: la vita è chiaramente vista come buona rispetto alla morte dalle migliaia di persone che pur malate e disabili non la vogliono abbandonare; forse perché hanno trovato un significato, un contesto o una persona per cui vivere, e non necessariamente di tipo chiaramente religioso. Forse perché hanno trovato nel momento della disperazione non un aiuto a morire ma a capire, a curare, a lenire, e anche a diventare più forti e magari ardimentosi. Non pensate, che piuttosto che aiutare a incontrare la morte, la gente malata voglia essere aiutata a incontrare questo?