Com’è possibile che, nell’epoca in cui ne siamo ossessionati, il desiderio venga meno? Ragionare attorno a questo apparente paradosso significa non solo inoltrarsi per le stanze segrete della nostra vita sociale, ma anche trovare una strada per affrontare la crisi nella quale ci trasciniamo ormai da alcuni anni.
Ha ragione Giussani, sulla scia di S. Agostino, quando dice che l’animo dell’uomo desidera. Non è difficile, se ci guardiamo dentro, scoprire che è così. Proprio su questo punto si incardina l’eresia moderna, secondo la quale il desiderio può essere detto e conosciuto, posseduto addirittura.
Invece di tenerlo riparato, protetto, separato, il desiderio viene così profanato. Gli economisti l’hanno chiamato felicità, interesse, utilità. Il desiderio è mio e lo posso possedere. E così, ogni cosa viene assoggettata nello sforzo di riempire ciò che non può essere riempito, tanto meno di cose, esperienze, sensazioni.
Non possiamo non riconoscere che il processo di liberazione che ha attraversato la modernità abbia contribuito all’emersione del desiderio: il benessere materiale, il rafforzamento della democrazia, il pluralismo culturale sono fattori che hanno concorso a riconoscere la rilevanza di questa dimensione che ci abita e che ci muove. Ma siamo ancora lontanissimi dal riuscire davvero a farci i conti.
Se guardiamo alle società avanzate, non è difficile vedere che i risultati sono, per molti aspetti, deludenti. La riduzione materialistica e immanentistica del desiderio finisce, infatti, per rinchiudersi in un vicolo cieco. Da un lato, il desiderio si riduce alla nostra carne, investendo pienamente il corpo e le sue pulsioni. Esso diventa volontà di potenza. È questo il grido dell’uomo contemporaneo: alla ricerca di un punto su cui appoggiare il grande vuoto che sente, egli si rifugia nell’eccitazione sensoriale, che deve diventare sempre più forte per evitare la perdita della sua efficacia. Dall’altro, il desiderio si schiaccia sul sociale. Incapaci di essere motori di noi stessi, imperiamo a desiderare quello che desiderano gli altri, finendo per conformarci al contesto pur di aggrapparci a qualcosa.
Cercando di riempire il vuoto attraverso un pieno, entrambe queste risposte – il pieno del possesso e del dominio oppure il pieno fusionale del consumo – si rivelano inadeguate. Ogni volta, scopriamo che il desiderio è ancora lì, a riproporci le sue domande. A me sembra che proprio in questo difetto di definizione antropologica risiedano molti dei mali del nostro tempo che pare non volere rendersi conto del problema che si porta dietro la conquista della libertà: liberati da tante costrizioni esterne, pretendiamo di autofondarci. Ma posta in questi termini, la sollecitazione del desiderio non può che produrre frustrazione, dato che tutto, alla fine, torna banale: il potere per il potere, il denaro come mezzo per altro denaro, il godimento come eccitazione. Tentativi impossibili di riempimento del niente.
In questa prospettiva, la questione sollevata da Carron non è un fuor d’opera. La crisi che sta segnando questi anni – e che in Italia assume tratti virulenti anche per la disgregazione del sistema politico – è sì economica e finanziaria, ma prima di tutto antropologica: per quanto possiamo darci da fare, il nostro desiderio non sarà placato dalla nostra potenza tecnica o economica.
Ecco perché la nostra responsabilità – cioè, ciò a cui diamo risposta – non trova nell’opera o nel profitto il proprio compimento! Se così fosse, la partita non solo sarebbe già persa, ma non varrebbe la pena di essere giocata. Se il nostro agire non vuole limitarsi a essere deludentemente ripetitivo e ambisce a diventare atto creativo – e in questo modo sostenere il desiderio che vuole inseguire – solo la passione per l’uomo nella sua concretezza vivente può animarlo. Cioè restituirgli quel soffio di vita che altrimenti non ha.
Mi viene da pensare a una nuova, tutta contemporanea, forma ascetica, di chi ha il coraggio di usare tutti i potenti mezzi di cui disponiamo – le opere e i profitti – mantenendo fisso lo sguardo sull’altro che incontra, segno visibile dell’Altro che cerca. Solo se resta aperto a uno sbocco oltre l’immediato e oltre noi stessi, il desiderio può riacquistare forza e tornare capace di slanciare la vita.
Sono sempre più convinto che non ci sarà uscita dalla spirale della crisi senza la capacità di riproporre una diversa idea di libertà, declinandola in nuove forme istituzionali capaci di ospitarla. Fintanto che lo schiacciamento del senso resterà così radicale, non si potrà sperare che sorgano le nuove energie morali necessarie per una nuova stagione di sviluppo. L’apparente inattualità di un discorso sul desiderio svela così la sua piena pertinenza.