In queste ultime settimane il dibattito sull’eutanasia è tornato a impennarsi per una serie di ragioni che sembrano molto distanti tra di loro, ma che finiscono col convergere in una cultura della morte, che pretende di scalzare la cultura della vita: vero asse portante dell’intera civiltà occidentale.

Ha cominciato una piccola emittente televisiva della Lombardia, che voleva riproporre uno spot in cui un anziano reclama il diritto a porre fine alla sua vita; hanno continuato Saviano e Fazio nella loro trasmissione ipocritamente etichettata come un servizio alla vita, nonostante le storie di morte mandate in scena. E ieri in aula i radicali hanno strumentalizzato la morte di Mario Monicelli, sostenendo che se ci fosse stata una legge che legittimava l’eutanasia, Mario Monicelli non sarebbe morto così. Forse: ma sarebbe comunque morto, perché nessuno ha saputo stargli accanto nel modo giusto per attenuare la sua paura di un buio, che si andava facendo sempre più scuro e tenebroso.



Una vita che sembrava diventata senza senso, perché nessuno gli raccontava e gli permetteva di raccontare tutte le cose belle che aveva fatto; i sorrisi che aveva suscitato in milioni di italiani; l’intelligenza critica con cui aveva messo a fuoco le nostre debolezze e i nostri difetti nazionali. Chissà cosa avrebbe pensato se avesse potuto leggere i giornali di oggi: ognuno ha fatto a gara per mettere in evidenza quella che potremmo chiamare la lezione Monicelli. Se avesse saputo quanto era ancora vivo il suo insegnamento nei suoi collaboratori e nei suoi allievi, come un insegnamento di vita che poteva continuare a dare, dando senso alla sua vita nonostante le indubbie difficoltà in cui si trovava.



Mario Monicelli è stato uno dei testimoni più straordinari di questo nostro tempo che ha saputo raccontare senza nascondere vizi e virtù degli italiani. Li ha raccontati però con quella partecipazione ironica che sapeva comprendere senza giudicare, ma senza neppure avere la pretesa di trasformare le nostre piccole meschinità in modelli di riferimento per i più giovani o per le generazioni successive. Nella creazione dei suoi affreschi sociali del nostro dopoguerra ha potuto contare sulle performance di grandi attori come Alberto Sordi, Totò, Vittorio Gassman… Per citare solo alcuni tra coloro che, mentre ci facevano ridere, ci obbligavano a guardarci allo specchio per prendere atto che i nostri difetti non permettevano nessuna forma di saccenteria petulante, nessun moralismo a buon mercato, ma solo una apertura verso gli altri, fatta di magnanimità e di buon umore.



Straordinaria la sinergia tra il regista e l’attore, come se ci fosse una continuità di prospettive e di punti di vista che anche sul piano metodologico permettono di comprendere meglio cosa ha rappresentato per gli italiani, e non solo per loro, la commedia all’italiana. Un modo di fare cinema in cui i confini tra chi dirige e chi recita si stemperano in una narrazione da cui emerge la nostra italianità non ostentata, spesso sofferta, sempre ironica e garbata.

Monicelli era uno di noi, proprio perché ci raccontava come siamo, oggi come ieri, gente comune, con le nostre ansie e le nostre preoccupazioni, con le nostre velleità e la nostra presunzione, con gli alti e bassi di uno stato d’animo altalenante, perché trascinato da eventi e circostanze che troppo spesso sembrano ostili e duri da accettare. Italiani di ieri e italiani di oggi appaiono facilmente legati da un lungo filo conduttore che descrive una umanità che fa fatica a esprimere una tensione morale forte, che non sembra trovare uno slancio di trascendenza che dischiude nuove e insperate prospettive di cambiamento. Gli italiani son fatti così, sembrava che ci dicesse in ogni scena, in ogni sceneggiatura. Forse oggi appare con chiarezza il limite della narrazione di Monicelli: un lungo presente di chiaroscuri, racchiuso in un orizzonte in cui non c’era spazio per la speranza. Potevamo sorridere di noi, ma era difficile pensare che avremmo potuto essere diversi, per esempio migliori.

 

Oggi Monicelli non c’è più, il grande vecchio del cinema italiano che scherzando metteva in dubbio la sua stessa morte, ha fatto una scelta dolorosa, graffiante per le coscienze di tutti noi, ha aspettato che scendesse il buio, che nell’ospedale in cui era ricoverato si riducesse il ritmo intenso del lavoro di assistenza, ha aperto una finestra ed è saltato giù. Non c’era nessuno accanto a lui, perché da tempo aveva reso la sua solitudine ispida e faticosa da attraversare. In un convegno organizzato dalla Fondazione Sordi e dedicato agli anziani, Pupi Avati, un regista che sa raccontare il valore della vita anche in condizioni che ai più sembrano drammatiche, ha raccontato dei loro colloqui serali, spesso notturni, avvenuti mentre entrambi erano ricoverati al Gemelli. Monicelli per un incidente in cui aveva riportato gravi fratture e in un’altra stanza Pupi Avati, ricoverato per un infarto.

 

Monicelli aveva paura del buio, si disorientava durante la notte e temeva di non poter recuperare la sua autonomia, temeva soprattutto di non poter tornare al suo lavoro, che già allora era la sua “droga” e la sua terapia. Pupi Avati ha raccontato di una sorta di patto stretto tra di loro, per sostenersi proprio sul piano professionale, per tornare entrambi al loro ruolo di cantastorie. Ma poi Monicelli, nonostante fosse riuscito a riprendere il suo ritmo intenso di lavoro come regista impegnato a mettere il dito nella piaga nelle nostre distonie sociali e nelle nostre contraddizioni personali, si era andato chiudendo in se stesso, sempre più solo e sempre meno capace di guardare oltre il confine sottile che separa solitudine e depressione.

 

La sua morte è per tutti noi il segno di un’incapacità a comprendere la solitudine dell’anziano, le sue paure, e quella perdita di senso che corrode la prospettiva del futuro, svuotandola di significato e consegnando un uomo al buio della sua notte. Non è stato un gesto di libertà il suo, né un gesto di coraggio, ma solo un gesto di ordinaria disperata solitudine, in cui nessuno l’ha preso per mano, nessuno gli ha ricordato quel meraviglioso dialogo con la Signora della morte che lui stesso aveva inventato nell’Armata Brancaleone. Avremmo voluto mantenere il silenzio sulla sua fine, per rispettare il suo dolore e la sua sofferenza, per fare tutti noi un silenzioso esame di coscienza, pensando alla nostra fretta, alla nostra ingratitudine e alla nostra sbadata distrazione, piena di noi e delle nostre velleità di grandi uomini, mentre in fondo non siamo altro che borghesi piccoli piccoli.

Avremmo voluto, ma non è stato possibile, davanti alla provocazione che è venuta dal fronte radicale, in cui si è approfittato di questa vicenda umana per reclamare a gran voce la legittimazione dell’eutanasia. L’assioma da cui sono partiti i radicali è del tutto coerente con le loro costanti e ripetute affermazioni, con i disegni di legge da loro proposti, con i gesti clamorosi da loro compiuti in numerosi occasioni. Se in Italia l’eutanasia non fosse reato, Monicelli sarebbe morto ugualmente, ma in modo diverso: con un’iniezione compiacente. Non una dolce morte, ma una morte somministrata da qualcuno, complice di un dolore e di una sofferenza a cui non avrebbe saputo dare una risposta diversa.

 

La provocazione radicale ha sferzato l’aula perché è apparsa a tutti una vera e propria strumentalizzazione del dolore umano, della solitudine dell’anziano, della paura del buio che c’è in ognuno di noi. Con molto pudore e con grande delicatezza i colleghi Carra e Veltroni avevano reso omaggio alla sensibilità narrativa di Monicelli, lasciando nella penombra il suo gesto, non per ipocrisia, ma per rispetto a quella lacerante tristezza che l’ha spinto a un gesto drammatico. Eppure la cultura radicale ha cercato di farsi nuovamente presente per insidiare il valore della solidarietà, che definisce l’humanum che c’è in ognuno di noi, risolvendolo in una generica affermazione del principio di autodeterminazione. Nessuno pensa che psicologicamente ci si possa autodeterminare al suicidio, solo la paura del buio, una passione triste come quella che può invadere un anziano solo e malato, permette di immaginare cosa possa essere passato per la mente e per il cuore di Mario Monicelli.

 

Ben diversa quindi è la nostra proposta che si fonda su di una visione solidale della vita umana, che parte dalla consapevolezza che la migliore espressione della nostra umanità è tutta nella relazione di aiuto, nell’etica della cura che dà ragione della dignità della nostra vita. Le storie di quotidiana sofferenza dei malati e degli anziani ci obbligano a creare e ricreare continuamente il tessuto di solidarietà e di accompagnamento che dissolve il nostro individualismo e il nostro egoismo. Monicelli ci dà quest’ultima lezione con il suo suicidio: non lasciateci soli! Ed è questo il testimone che vogliamo raccogliere per sollecitare la politica a liberare risorse da mettere a disposizione degli anziani, dei malati, dei non autosufficienti.

 

Vogliamo alleggerire il loro senso di colpa, non vogliamo che si sentano di peso, non vogliamo che le loro famiglie cedano alla fatica dell’assistenza e si sottraggano alla responsabilità della cura. Non di eutanasia ha bisogno il nostro Paese, ma di politiche sociali solide, non di una sterile affermazione del principio di autosufficienza in chi autosufficiente non è, ma di una positiva affermazione del principio di solidarietà. Per questo serve ritrovare una nuova energia morale, che ci faccia sentire tutti più responsabili gli uni degli altri, superando l’impasse di una sterile affermazione di un individualismo privo di calore umano.

 

L’aula ha condiviso la denuncia della mistificazione radicale, ne ha percepito i limiti, ma anche i rischi che drammaticamente stanno cercando ogni volta di più di capovolgere le prospettive antiche della relazione medico-paziente, ma anche quella uomo-uomo! Dalla campagna di Avvenire, alla manifestazione dell’Udc sotto la sede Rai, dagli appelli rivolti dai cattolici di tutti i partiti è stato confermato un si corale alla vita. E da qui intendiamo ripartire già da domani…