Confinate a una lettera a pag. 55, il Corriere della Sera riporta le parole di Dario Caldiroli, Direttore della Neuroanestesia dell’Istituto Besta di Milano. Lettera che colpisce perché fa due cose che normalmente non è dato trovare, soprattutto non assemblate: riporta chiaramente un dato scientifico e trae conclusioni etiche.



Il discorso dell’autore è semplice: lo stato di minima coscienza (un’evoluzione del coma) è ben diverso dalla morte cerebrale, e con nuovi ritrovati della tecnica possiamo entrare in contatto con ciò che passa per la mente di questi malati. Conseguentemente, lasciarli morire o mettere in atto azioni eutanasiche nell’ipotesi che “non sentano nulla” è antiscientifico. L’autore della lettera evidentemente si riferisce al clima che spinge sempre più verso il considerare la vita che non è autonoma come vita che manca degli attributi propri della persona umana.



La coscienza presente anche in caso di danno della corteccia cerebrale è un dato della letteratura scientifica: anche in assenza di una corteccia cerebrale funzionante, è possibile per il malato percepire. Che sia possibile, non significa necessariamente che “senta”, e non ci dice “come” senta; ma non possiamo escluderlo.

Anzi, vari studi mostrano, ad esempio, che nei soggetti con danno cerebrale alla zona della corteccia deputata alla vista hanno una percezione non cosciente ma pur efficace degli ostacoli che gli si parano dinanzi; e che la percezione del dolore non necessita della corteccia cerebrale, ma solo delle zone profonde del cervello dove lo stimolo doloroso arriva e viene elaborato prima di essere mandato eventualmente alla corteccia (si veda in proposito la rassegna pubblicata su Behavioral and Brain Sciences nel 2007 da Bjorn Merker, dal titolo “Coscienza senza corteccia cerebrale”).



Anche lo “stato vegetativo persistente” ha la possibilità di nascondere una coscienza in atto che noi possiamo individuare, come nota la rivista Plos Medicine del novembre 2010. Insomma, confinare le percezioni alla corteccia cerebrale (quella profondamente danneggiata nei pazienti in stato di minima sensibilità) è un criterio antidiluviano.

 

Pier Paolo Pasolini, cita Caldiroli, scriveva: “La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi”. Purtroppo oggi vige un criterio che potremmo così sintetizzare “Non sembra, dunque non è”, che è la scusa usata quando si parla di embrioni: non sembra a occhio nudo un essere vivente (ma per il genetista lo è eccome!), dunque non è umano. E che trionfa anche quando si parla dell’adulto: non ha certe capacità che io reputo indispensabili, dunque non è umano, vedi per l’appunto le capacità di comunicare o di mangiare da sé o di imporsi agli altri.

 

Va di pari passo dire “Non sembra dunque non è” e “Non ha dunque non è”, le cui implicazioni sul campo sociale e della povertà ben si intuiscono, anzi in alcuni Paesi già sono in atto con atti di violento sopruso verso i poveri o le persone di altra etnia. Il mondo dei disabili gravi, in stato di minima coscienza o in stato vegetativo, in fondo ci ricorda che tutti siamo dipendenti dagli altri, e non per questo il più debole deve essere abbandonato. La lettera del Caldiroli ci aiuta a non scordarlo.