I discorsi alla Curia romana del Papa sono, solitamente, discorsi “programmatici”. Lo è stato sicuramente quello del dicembre 2005, il suo primo rivolto agli organi di governo della Chiesa universale, quando Benedetto XVI affrontò una delle questioni dirimenti della cattolicità: la lettura del Concilio Vaticano II, e ne propose una interpretazione autorevole che lo collocava come un fatto di rinnovamento “dentro” la tradizione della Chiesa e non in rottura con essa, abolendo quella distinzione fra “spirito” e “lettera” del Concilio che ne aveva permesso sia l’uso in senso progressista sia il rifiuto da parte dei tradizionalisti.



Nel discorso di ieri Benedetto XVI ha posto come premessa un giudizio storico senza la comprensione del quale non si capisce il compito specifico dei cristiani nella post-modernità: siamo in un’epoca simile al “tramonto dell’Impero Romano”. Un tempo contraddistinto dal “disfacimento degli ordinamenti portanti del diritto e degli atteggiamenti morali di fondo, che ad essi davano forza, causavano la rottura degli argini che fino a quel momento avevano protetto la convivenza pacifica tra gli uomini. Un mondo stava tramontando”.



Oggi, dice il Papa, “il mondo è angustiato dall’impressione che il consenso morale si stia dissolvendo, un consenso senza il quale le strutture giuridiche e politiche non funzionano; di conseguenza, le forze mobilitate per la difesa di tali strutture sembrano destinate all’insuccesso”.

Più chiaro di così! Di fronte a questa situazione, il contributo della Chiesa non è, quindi, il supporto alle strutture di un mondo al tramonto, ma, proprio per salvarne le “nuove speranze e possibilità”, suo compito è quello di gridare rivolti al Signore: “Excita, Domine, potentiam tuam, et veni”, detto esplicitamente: dobbiamo “svegliarci dal sonno di una fede divenuta stanca”.



 

E’ una fede stanca, dice il Papa, il problema che angustia la Chiesa, che la lacera, che la insudicia. Benedetto XVI usa una poderosa immagine di sant’Ildegarda di Bingen: una donna bellissima, con una veste splendida ornata di pietre preziose, “ma il suo volto era cosparso di polvere, il suo vestito… strappato… le sue scarpe insudiciate”.

 

Ildegarda parla della stimmate di Cristo “fresche e aperte”: “questo restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti”. La ferita della Chiesa, proprio nell’anno sacerdotale, commenta il Papa, è stata la scoperta, “in una dimensione per noi inimmaginabile”, degli “abusi contro i minori commessi da sacerdoti”. Per Benedetto XVI non è una vicenda chiusa, anche se sembra essersi calmato il clamore mediatico sullo scandalo. Non è chiusa perché per lui non è mai stata una questione di immagine, ma, e lo ribadisce, un problema di “verità” e di “rinnovamento”.

 

Lo scandalo è profondo perché la radice è profonda. C’è stato qualcosa di “sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero modo di configurare l’essere cristiano” perché “una tale cosa potesse accadere”. La conseguenza di questa parzialità nel pensare la fede e “configurare” la vita cristiana s’è manifestata nei seminari, e lì, dice il Papa, va introdotta la correzione: “Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere”.

 

Nel farlo, ammonisce Benedetto XVI, dobbiamo essere coscienti del mondo in cui viviamo. I fedeli e i sacerdoti non sono immuni dalla mentalità diffusa, dal contesto in cui vivono. Il mercato della pornografia concernente i bambini “considerato sempre più dalla società come una cosa normale”, il turismo sessuale, il potere della droga e degli interessi economici che la circondano, hanno il loro fondamento su un “fatale fraintendimento della libertà, in cui proprio la libertà dell’uomo viene minata e alla fine annullata del tutto”. La libertà come destino ideale viene ridotta a idolo che non mantiene ciò che promette, anzi, lo perverte.

 

Ma un pontefice come Joseph Ratzinger non può permettere che il suo richiamo sembri un’esortazione morale. L’appello a risvegliare la fede è sempre anche una sollecitazione ininterrotta a vivificare l’intelligenza. Constatata una situazione, dobbiamo approfondirne “i fondamenti ideologici”. Qui non si può non citare integralmente il suo passaggio, perché è rivelatore anche dei guasti di certo post-Concilio acritico di una Chiesa che volendo “aprirsi al mondo” – come si diceva e si dice ancora – ha permesso che succedessero al suo interno cose che il mondo ha teorizzato come “progresso” e di cui adesso, indignato e scandalizzato, accusa la Chiesa. Ma leggiamo il Papa.

 

“Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino. Questo, però, faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos. Si asseriva – persino nell’ambito della teologia cattolica – che non esisterebbero né il male in sé, né il bene in sé. Esisterebbe soltanto un ‘meglio di’ e un ‘peggio di’. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male. La morale viene sostituita da un calcolo delle conseguenze e con ciò cessa di esistere. Gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti”.

 

A questo punto Benedetto XVI cita la Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II come testo da mettere “nuovamente al centro come cammino della formazione della coscienza”, usando un termine che sembrava uscito dal lessico cattolico, soppiantato dall’inflazionato “valori”. Il termine è “criteri”. “E’ nostra responsabilità rendere nuovamente udibili e comprensibili tra gli uomini questi criteri come vie della vera umanità”.

 

Udibili e comprensibili perché, evidentemente, per decenni non sono stati pronunciati, né spiegati, né mostrati all’uomo contemporaneo come fonte di un’esperienza della vita più intelligente e più libera.

 

Forzando il lessico del Papa, possiamo dire che abbiamo assistito spesso allo spettacoli di cristiani “scriteriati”, i quali, nell’ansia di adeguarsi al mondo, come notava ironicamente il grande teologo cecoslovacco Josef Zverina, non si accorgevano neanche di farlo sempre con molto ritardo (“E’ ormai difficile ritrovarvi in questo strano mondo e distinguervi da esso. Probabilmente vi riconosciamo ancora perché è un processo lento, perché vi assimilate al mondo, adagio o in fretta, ma sempre in ritardo”, Lettera ai cristiani d’Occidente).

 

Del discorso alla Curia andrebbero poi commentati (altri lo faranno) anche il passaggio sulle persecuzioni dei cristiani nel mondo e quello, culturalmente decisivo, sul concetto di “coscienza” in Newman, che va al cuore del dialogo con la post-modernità cui Benedetto XVI ci invita.

 

Perché il problema è e resta quello della contemporaneità di Cristo, ben espresso dalla ormai nota domanda di Fedor Dostoevskij: “Un uomo colto, un europeo dei nostri giorni, può credere, credere proprio, alla divinità del figlio di Dio, Gesù Cristo?”.