Una volta lo si sarebbe chiamato “gesto inspiegabile”; oggi invece il suicidio di Mario Monicelli è accolto dai media con imbarazzato silenzio se non con approvazione: e silenzio e approvazione non vengono solo dai paladini del suicidio assistito o dell’eutanasia, ma da molte parti inattese echeggia una voce che in qualche modo “spiega” il fatto che un anziano lucido e malato si sia buttato dal quinto piano di un ospedale.



Una voce che comprende, che solidarizza. Disinteressandosi forse del fatto che questa “solidarietà” può essere la porta dell’emulazione, come ben spiega la rivista Plos Medicine del 2009 parlando dell’emulazione dei suicidi avvenuti nella metropolitana di Vienna: quante persone malate ora si sentiranno tentate di farla finita, invece di reclamare aiuto, diritti, compagnia, medicine? Quanti penseranno che morire in certe condizioni, quando ci si sente di peso per gli altri o si diventa comuni malati bisognosi di affetto, è approvato socialmente?



Approvazione e silenzio per il gesto purtroppo sono segnale che ormai sta vincendo chi per anni ci ha indottrinato dicendo che il clou della vita è ciò che diciamo nella nostra solitudine. È probabile. Ma guardiamo bene: dire così in apparenza richiama a un senso di libertà, di autodecisione slegata da coercizioni; ma in realtà richiama alla paura e alla solitudine.

Come ben spiegano i giornali scientifici, tutt’al più il malato può rifiutare cure inutili o dolorose, ma non ci si toglie la vita se non per domandare: il suicidio è un grido disperato. «La richiesta dei parenti o del paziente di affrettare la morte è un modo di esprimere la richiesta di maggiore comunicazione, miglior controllo dei sintomi, migliore comunicazione. È raro che rappresenti la necessità per il paziente di controllare ora, luogo e modalità della morte»,scriveva nel 2008 JL Abraham dell’istituto dei tumori di Boston.



Chi chiede di morire torna indietro se trova il modo di cambiare le condizioni ambientali; o se trova una cura adeguata alla depressione che troppo spesso e colpevolmente manca, come ben spiegava il British Medical Journal del gennaio 2010.

 

Il bivio cui si trovano davanti i legislatori è se dare la “libertà di morire” o se dare “la “libertà”: economica, sociale, clinica, ambientale per vivere. È questo il crinale che si finge di non voler vedere: la società postmoderna offre solo la libertà di morire, mentre la gente vorrebbe la libertà di vivere; abbandona la gente, la lascia nella disperazione e poi domanda: “Preferisci morire o vuoi sentire ancor più il morso della disperazione, perché io ti so offrire solo questa?”.

 

Bella alternativa e bella libertà! Darsi la morte è un atto che ci deve far riflettere: è davvero un atto di autodeterminazione o un’ultima richiesta di aiuto?