Mi pare molto interessante che in occasione dell’assemblea della Compagnia delle Opere, Carrón abbia espresso dei pensieri che, se condivisi, dovrebbero incidere profondamente sulle condotte e sulle pratiche di chi partecipa a questa impresa collettiva di creare insieme ricchezza sociale e solidarietà.

Da un’impressione superficiale mi pare che non sempre le parole di Carrón siano assunte come veri criteri guida per i comportamenti concreti. Carrón non lo ha detto, ma mi sembra di poter intuire che in questa vasta attività mondana ci sia il rischio di subire logiche di potere affini a quelle che attraversano la grande parte dell’attività economica in un’epoca come la nostra di ricerca sfrenata del successo e dell’autoaffermazione.



Due sono i concetti centrali del suo intervento che condivido totalmente e che cercherò di commentare in modo sintetico. Il primo è che sussiste una differenza radicale tra il “moralismo”, con il quale spesso “fingiamo” di valutare le azioni degli uomini secondo schemi precostituiti e astratti, e l’etica della responsabilità che si incarna nell’azione e la rende esemplare.



L’etica è il significato immanente di un’azione che, incarnando nella persona che la compie il principio dell’adesione alla vita, ne fa, al di là di ogni intenzione, un modello pratico da seguire e da proporre come inizio di una nuova prassi affettiva e solidale. Il mio comportamento è etico se, in spirito di verità, mi assumo la responsabilità di quello che dico e faccio e provo a renderlo effettivo con tutte le persone che incontro, spingendole a interrogarsi sul significato profondo che hanno sempre le pratiche quotidiane. L’etica è uno stile di vita, una partecipazione senza riserve della nostra libertà al compimento di un progetto di vita che ci accomuna ad altri nella condivisione della meta da raggiungere.



Al contrario, il moralismo, come sottolinea più volte Carrón, è quello degli scribi e dei farisei, che si aggrappano alla superficie esteriore delle apparenze illusorie per non affrontare mai con la propria responsabilità personale i dilemmi che ogni giorno la vita di relazione ci pone. Il moralismo è la precettistica arida che promuove rituali e sacrifici all’idolatria dell’astrazione della legge priva di cuore, e dimentica totalmente la concretezza esistenziale del rapporto con gli altri. Il moralismo è una vera e propria malattia sociale.

Intanto perché introduce nelle relazioni l’idea perversa che qualcuno abbia il diritto di giudicare gli altri secondo parametri e normative precostituiti all’azione concreta. Non giudicate se non volete essere giudicati. Il moralismo è un orpello con il quale si cerca di coprire il verminaio dei propri istinti selvaggi, invece di sottoporli al filtro della consapevolezza amorevole e dell’elaborazione affettiva, e ci si appiglia al rigorismo formale per farne uno strumento di lotta e di condanna degli altri.

 

Ha grande importanza la riflessione di Carrón proprio nel momento in cui, nel nostro Paese, il moralismo ipocrita e bacchettone viene usato come mezzo di lotta politica in contrasto con ogni visione misericordiosa che Cristo ha incarnato come misura vera del rapporto con le altre persone. Tutta la nostra vita pubblica è oggi inquinata dal moralismo farisaico e dall’idolatria delle regole formali di fronte invece a un degrado della vita etica delle persone, diventate sempre più indifferenti alla sorte della comunità umana e dell’intero pianeta. Chi si affida al moralismo è inoltre involontario portatore di una logica manichea in cui si è pronti a vedere la pagliuzza nell’occhio dell’altro ignorando la trave che pesa e annebbia il proprio occhio. Il moralismo è il contrario della fraternità, della partecipazione consapevole all’edificazione di una città più umana. Il moralismo è all’origine di ogni settarismo manicheo e la negazione di ogni spazio alla comprensione reciproca. Il moralismo è la negazione dell’affettività che vive nelle relazioni umane come misura di reciprocità senza gerarchie e presunte superiorità.

 

Per questa così netta presa di posizione contro il moralismo, che trasforma ogni incontro in uno scontro di principi normativi astratti, don Carrón fa appello a un ritorno all’autenticità e potenza del desiderio. Il desiderio come inesauribile tendenza verso la pienezza dell’essere, come tensione permanente verso la beatitudine dell’incontro con l’altro che ci completa e appaga. Meta irraggiungibile ma perseguita con tutto se stesso, il desiderio si contrappone all’effimero sentimento istantaneo e all’emozione superficiale che si dilegua nell’attimo del godimento immediato di qualsiasi bisogno percepito come urgenza e puro scarico di pulsioni.

 

Il sentimento come stato d’animo e le emozioni come mera reattività immediata a una stimolazione gradevole sono la morte del desiderio come accettazione consapevole della propria destinazione trascendente. Il desiderio è il trascendente della pura emotività, che diventa un’affezione della persona e ne orienta il cammino di ricerca di un compimento che oltrepassa la contingenza quotidiana. Il vero imperativo etico, non riassumibile in una codificazione delle cosiddette regole morali, è appunto “vivi secondo il tuo desiderio”.

Come hanno dimostrato alcuni studiosi della psiche, il desiderio è l’insaturabile tensione verso la pace e la felicità che può realizzarsi soltanto nell’intero percorso di una vita. Essere fedeli al proprio desiderio è una regola etica, mentre osservare la morale del senso comune e il conformismo dell’apparente obbedienza ai precetti è la pratica ipocrita degli scribi e dei farisei, sempre presenti in tutte le società.

 

Il desiderio è una forma dell’essere che struttura la destinazione umana verso una meta che diventa l’immanente tensione all’oltrepassamento della logica astratta delle buone maniere. Per seguire il proprio desiderio si può anche trasgredire la morale ufficiale, come fanno tutti gli obiettori di coscienza che si rifiutano di obbedire ciecamente a un ordine.

 

Massimo Recalcati ha scritto in un bel libro, intitolato l’Elogio dell’inconscio, che il desiderio è insaturabile e, perciò, persiste oltre ogni occasione come espressione di una logica opposta a quella della pura e immediata soddisfazione di ogni bisogno. Il desiderio va custodito e difeso di fronte a tutte le tentazioni di seguire quelle scorciatoie che possono dare l’effimera sensazione di una soddisfazione immediata. Anche Luisa Muraro, nel suo libro Al mercato della felicità, ha posto il desiderio come motore guida della capacità di sottrarsi all’immediatezza delle pure e semplici occasioni di godimento immediato.

 

Per certi versi il desiderio è sempre impossibile perché, durando oltre la soddisfazione immediata di un bisogno, continua a stimolare la ricerca della beatitudine. Il desiderio è l’elemento distintivo per eccellenza tra il vivente umano e il vivente non umano: gli animali hanno bisogni e istinti, ma non possono avere desideri, giacché essi presuppongono la consapevolezza dell’io e la percezione del tempo che passa. Il desiderio esprime la condizione umana nel suo nesso indissolubile con l’ansia di comprendere l’origine di ciascuno.

 

Paradossalmente il desiderio è un ponte verso il futuro radicato nel mistero dell’origine. Il desiderio risponde alla domanda “da dove vengo e dove vado?”. Il desiderio ha a che fare con il senso della vita perché comporta l’investimento affettivo sulle persone e sul mondo che ci stanno di fronte. Il senso della vita è la fedeltà al desiderio che ci fa amare il mondo e le persone.

Per questo, ed è la terza cosa da dire a commento dell’intervento di Carrón, il desiderio si rende consapevole della sua destinalità solo nell’incontro con l’altro, perché il desiderio non è l’astrazione di una relazionalità senza soggetti, ma la concreta situazione in cui si manifesta la fraternità verso chi mi sta di fronte. Per tale ragione, il desiderio dell’incontro è un aspetto strutturale della dinamica del desiderio, giacché ne definisce la concretezza esistenziale. Solo nella struttura del desiderio, come tensione verso un compimento trascendente, acquista un senso preciso l’incontro con Gesù Cristo, come contemporaneo che mi sta di fronte per essere amato o respinto. Ciò che profondamente ciascuno di noi desidera è, infatti, amare ed essere riamati.

 

Condivido dunque il filo del discorso di Carrón, ma vorrei che fosse inteso come l’invito a operare anche l’attività pratica come un segno della rivolta necessaria alle ingiustizie e alle sofferenze del nostro mondo.