Non si può non condividere il pensiero di Mauro Magatti quando afferma l’esistenza di un’illusione moderna secondo la quale ogni desiderio può aspirare a essere esaudito. Un’illusione che ne traduce un’altra, ancora più radicale, quella di auto-fondarsi. È vero che dinanzi a una tale crisi occorra mantenere fisso lo sguardo all’altro, segno dell’Altro; quindi fare spazio a una diversa idea della libertà. Ma se c’è schiacciamento radicale del senso, come fondare una tale idea?



Lo schiacciamento del senso, del quale parla Magatti, nasce dalla capacità da parte della società moderna di eludere il desiderio, corrodendone le basi e mostrandone l’inevitabile, ma anche legittima, superficialità, la sostanziale quanto assolutoria insensatezza. Il desiderio moderno, nella sua riduzione emozionale, è tagliato dalle sue radici. Esso è socialmente legittimato solo quando appare deprivato da qualsiasi senso e si riduce al semplice desiderio di benessere e di gratificazioni sensoriali, da realizzare ovunque sia possibile: nella professione, nella disponibilità economica, nelle relazioni con gli altri, nella visibilità sociale e mediatica.



Ma la riduzione del desiderio a una serie illimitata di raccolta di emozioni gratificanti, prive di senso e, proprio per questo, legittimate e socialmente tollerate, ha come premessa l’elisione del soggetto stesso. Lo schiacciamento del senso implica necessariamente una messa tra parentesi dell’uomo, la certificazione di una qualsiasi assenza di consistenza nei desideri che questi esprime.

Il desiderio non ha senso ed è ridotto alla semplice emozione (o sentimento, come dice Carrón) perché il soggetto che dovrebbe esprimerlo è negato nella sua individualità ed è ridotto ai suoi determinanti biologici, culturali e sociali. L’unica individualità che questi si vede riconosciuta risiede sì nei propri sentimenti, nelle proprie emozioni e nei propri desideri, ma solo a condizione che questi siano stati ridotti a volizioni personali, a semplici gratificazioni immediate quanto intense, interamente riassumibili nel quadro delle pulsioni delle quali questi è portatore.



Da qui nasce la duplice follia: da un lato, poiché i desideri sono l’unica dimensione legittima della propria espressione di sé, non solo questi si convertono nel solo piacere sensoriale e nelle gratificazioni che possono provenire dal possesso di cose e persone, ma soprattutto diventano enormi, debordanti, insopprimibili (e tante violenze efferate delle quali la cronaca è piena, trovano risposta proprio in questa direzione).

Dall’altro, nella misura in cui il soggetto si percepisce attraverso la sola dimensione dei propri desideri, anche l’incontro con l’altro – centro e cuore della proposta di don Giussani – è ridotto alla ricerca di un incontro con sé stessi, con un altro che ci sia complementare e funzionale, gratificandoci, soddisfacendosi nel nostro ruolo e nelle nostre funzioni.

 

Oltrepassare questi limiti e recuperare “il senso del desiderio” vuol dire riconoscere gli altri e noi stessi nel nostro desiderio di “vita buona”, vuol dire riconoscere dietro la superficialità delle emozioni e alla loro base, questo desiderio radicale di vita (e della “vita in abbondanza”) che è alla base del senso religioso.

 

Affinché l’incontro con l’altro recuperi lo stupore (quello stupore così presente nel pensiero di don Giussani), occorre che il desiderio, ben lontano dal ridursi alle soddisfazioni di superficie, abbia preso la forma di un’attesa radicale di “vita buona”, di una vita all’altezza di ciò che siamo chiamati (vocati) ad essere.

 

Solo così l’incontro con l’altro diventa sorprendente, ci disarciona e ci stupisce perché, se da un lato, come ogni dono, non può che essere inatteso, dall’altro, come risposta a un’attesa interiore e segreta, può essere percepito e quindi riconosciuto solo se il desiderio è conservato o ricostituito nella sua forma consapevole di desiderio di vita. Di quella “vita buona” alla quale ci sentiamo chiamati dall’interno e che continuiamo a cercare, disperatamente, ma anche caparbiamente.

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