Qualche giorno addietro Franco Rizzi, dalle pagine del sito Medarabnews, è tornato sulla vicenda di Hina Saleem all’indomani della sentenza della Corte di Cassazione che ha confermato la condanna a 30 anni del padre aguzzino. Come tante altre voci che si sono affollate dopo il pronunciamento della suprema Corte, anche Rizzi si è affrettato a bollare le manifestazioni a favore della povera Hina come brodaglia annacquata di luoghi comuni sull’Islam e sull’islamofobia, parlando di “accanimento ideologico” da cui avrebbe preso piede la costruzione di «uno schema culturale secondo il quale con l’assassinio di Hina Saleem ci si trovava di fronte a un classico omicidio d’onore, maturato nell’incomprensione, nell’ignoranza e nell’islamismo radicale».
Credo allora, dato quello che ho letto sui giornali, che sia necessario fare alcune precisazioni sulla vicenda che rendano chiaro ciò che chiaro non sembra affatto. Di fatto la Corte di Cassazione ha accolto l’impianto accusatorio costruito dall’avvocato di parte civile, Loredana Gemelli, che nella fase istruttoria del processo aveva dimostrato una verità ben più sconcertante rispetto a quella del delitto di onore. Hina Saleem era infatti oggetto di violenza sessuale da parte del padre: ecco perché, secondo i giudici, «la motivazione assorbente dell’agire dell’imputato è scaturita da un patologico e distorto rapporto di “possesso parentale”».
Possesso-dominio, per essere più precisi. Quella stessa devianza che si ingenera in condizioni di particolare sottomissione della donna. Quella devianza le cui distorsioni avevano condotto Hina a sporgere una prima denuncia (e a essere successivamente allontanata dalla famiglia con provvedimento d’urgenza dal Tribunale per i Minori) per violenze e molestie paterne, poi ritrattata sotto la promessa di una mai concessa libertà: quella di andare a vivere con il suo ragazzo.
Hina dunque è stata vittima di un omicidio premeditato il cui movente è stato diluito nel brodo di usanze tribali primordiali al fine di aggirare il corso della giustizia puntando ad ottenere in sede processuale uno sconto di pena dovuto al rituale perpetrarsi della catena «donna-musulmana-innamorata-di-un-occidentale-disonore-della-famiglia». Una catena che avrebbe puntato a e ottenuto un ammorbidimento della sentenza in base all’assunto secondo il quale: “Sono musulmani, sono le loro tradizioni, sono abituati così».
Ecco allora che questo efferato omicidio, per di più compiuto da un padre su una figlia, diventa ancora più infame. Un delitto giustificato di fronte alla comunità pakistana, adducendo quelle stesse motivazioni cultural-religiose richiamate anche dal rito di sepoltura della ragazza, trovata decapitata, avvolta in un lenzuolo bianco e con la testa rivolta verso La Mecca, rivela una volta di più l’uso distorto, contorto e pusillanime che viene fatto della religione, prostrata al cospetto di furori umani. Troppo umani. Solo umani.
Quello che di positivo io ravviso nella sentenza della Cassazione è stato il fatto che i giudici, attenendosi agli atti, non hanno vacillato di fronte alla possibilità di prevedere uno sconto di pena rispetto ai 30 anni inflitti al padre, così come invece è accaduto per gli altri maschi coinvolti.
Una giustificazione odiosa pari a quella concessa dal famoso giudice di Hannover, della civilissima Germania, che ha concesso al condannato uno sconto di due dei sei anni inflitti per aver seviziato la propria fidanzata, riconoscendo le attenuanti generiche e culturali, derivanti dalla sua origine sarda.
Inoltre il processo per la morte della povera Hina ha messo in evidenza la premeditazione perpetrata nel condurre il crimine: un abile gioco preparato nel dettaglio e che condotto il padre Mohammed a fare espatriare il resto della famiglia in Pakistan, a vendere la propria casa e a cercare di fuggire egli stesso, questa volta senza successo. Ed è oltremodo singolare l’atteggiamento che la madre della ragazza ha tenuto al processo: essa ha giustificato il marito ribadendo che fosse stata la figlia la macchiata di ignominia e che, se certe cose accadevano in famiglia, bisognava subire e tacere. Per di più inveendo contro l’avvocato di parte civile. Quasi questo fosse il destino delle donne.
Mi sembra allora che la vicenda di Hina sia molto più complessa di quanto dipinta dai giornali o di quanto alcuni giornalisti e studiosi si siano affrettati ora ad affermare, ora a spergiurare di fronte all’opinione pubblica, dimostrando di non conoscere alcun atto processuale. Si tratta di una vicenda consumata in un contesto di degrado, dove la religione e la cultura sono state piegate alle perversioni di un padre e sventolate come cartina di tornasole di fronte alla comunità. Questo è il vero dramma di questa storia e questo deve servirci da monito affinché brutalità di tal fatta non possano più accadere.
È allora necessario affermare una volta di più che non vi sarà spazio nel nostro ordinamento per l’introduzione, seppure alla chetichella, o sotto mentite spoglie, della Sharia. Ma che al contrario bisognerà lavorare sodo per fare in modo che i diritti individuali, la dignità e l’integrità della persona vengano garantite al di la di qualsiasi giustificazione, culturale o religiosa che sia. Bisognerà valutare l’opportunità di considerare che ciò che oggi è interpretato come attenuante culturale venga invece trasformata in una vera e propria aggravante. Con tutte le conseguenze sul piano sanzionatorio.