Sulle insegne scintillano ideogrammi al neon, le vetrine sono ricolme di merci accatastate con criterio incerto, in sottofondo un vociare concitato e incomprensibile. Sbucando da via Paolo Sarpi in via Rosmini, nel cuore della Chinatown milanese, di occidentale c’è ben poco. Occorre arrivare fino a via Giusti perché il sagrato di una chiesa cattolica ridipinga sembianze familiari per un cittadino italiano. Fino a un anno e mezzo fa la parrocchia della SS. Trinità era l’ultimo baluardo rimasto agli anziani italiani residenti nel quartiere, poi ha ricominciato a «fare da ponte fra le due culture agli antipodi», racconta a Tempi il giovane cappellano don Domenico Liu.
È su questo sagrato che, intorno agli anni Venti, arrivano i primi immigrati cinesi. Accolti dalla comunità cristiana, molti di loro si convertono e si sposano con donne italiane. La Messa in lingua è garantita costantemente fino agli anni Ottanta, poi la scarsa partecipazione dei fedeli e la mancanza di sacerdoti disponibili costringono il parroco a chiudere i battenti. Nel frattempo arrivano gli anni Novanta, quelli della nuova imponente ondata migratoria causata da una sanatoria nazionale e dal contemporaneo smantellamento dell’industria statale del Nord-Est della Cina. Dei nuovi arrivati si sa ben poco, sono i cinesi invisibili, quelli che storie metropolitane tutt’altro che leggendarie dipingono come nascosti nei seminterrati o nei retrobottega dei negozi. Di quel popolo nascosto nessuno sembra curarsi troppo, fino a che i problemi escono dai seminterrati. Nell’aprile 2007 si verificano pesanti scontri fra polizia, italiani e stranieri del quartiere. La classica goccia sono le multe ad alcuni negozianti cinesi, ma il vaso è colmo degli strascichi di una “colonizzazione” scriteriata del quartiere.
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«Io sono arrivato qui esattamente un anno dopo quegli scontri», riprende don Liu. «Erano dieci anni che la diocesi aspettava un prete cinese». Un’attesa molto lunga perché «non è che in Cina ci siano molti giovani cattolici, preti e legati alla Chiesa clandestina (riconosciuta da Roma e perseguitata dal governo che comanda quella ufficiale, ndr), per di più che conoscano l’italiano». Tutte caratteristiche che invece don Liu possiede per un mix di imprevisti e di scelte. Dopo una formazione che dura 14 anni, ne ha solo 32 quando arriva nella diocesi milanese. Liu ha incontrato la Chiesa cattolica a 16 anni grazie ad un compagno «che ha ridato senso alla mia vita, che prima non ne aveva alcuno». Passava le giornate come tutti i suoi coetanei, «a studiare perché si deve, a rispettare genitori e parenti più anziani, perché la nostra tradizione confuciana ce lo impone», ma senza conoscere la vera ragione di quei gesti.
Quando qualcuno gli insegna che la «vita non finisce qui, che c’è altro oltre a quel che si vede e che c’è un Padre che ci ama» a quel Padre Liu decide da subito di dare la vita. Si fa battezzare col nome di Domenico, per poi diventare sacerdote. Non lo fermano neppure le persecuzioni che la Chiesa clandestina subisce da parte del governo. I primi due anni li passa sui libri, nascosto in un seminario della sua città natale, Fuzhou, insieme a una dozzina di giovani. Lì, fra le stanze allestite in una soffitta sotto la copertura di altri cattolici che risiedono nelle case sottostanti, «dicevamo messa e studiavamo durante il giorno, mentre la sera dovevamo rimanere al buio per non destare sospetti». Se la prudenza è regola non scritta del seminario che Domenico rispetta, il suo impeto va però da tutt’altra parte: «Cercavo di dire a tutti Chi avevo incontrato. Facevo catechismo agli studenti in locali protetti vicini all’università». I superiori del giovane prete non tardano a scorgere in lui una vocazione missionaria e lo inviano a Pechino dove ha la possibilità di studiare lo spagnolo. In città ha anche più occasioni di incontrare altri cattolici non cinesi e scoprire che «il cristianesimo ci rende fratelli di uomini di culture totalmente diverse».
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Don Domenico diventa amico di un missionario che lo invita ad andare a Roma, dove, sempre in seminario, inizia a imparare l’italiano. Da lì viene spostato a Macerata e studia filosofia, per tornare dopo due anni nella capitale e completare i tre anni di formazione teologica nell’Università Pontificia Urbaniana. Qui lo nota il rettore, insieme ai responsabili della Propaganda Fide, la Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli. Dopo poco tempo don Liu viene individuato come la persona più adatta ad assumersi la delicata responsabilità di guidare la comunità milanese, nel frattempo notevolmente cresciuta. A due giorni dall’arrivo in parrocchia di padre Liu il sagrato di via Giusti si riempie di fedeli. Sono ottanta ad aspettarlo e ad aspettare quella Messa che non si celebra in lingua dal 1996.
Ben presto padre Liu si rende conto che, oltre alla partecipazione ai sacramenti, i bisogni della comunità sono tanti e molteplici. «Sono venuto qui per rispondere a quelli di tutti, non solo dei cattolici, ma di ogni cinese, perché le difficoltà sono tante». Quella maggiore secondo il cappellano è sicuramente l’integrazione, «ostacolata principalmente dalla lingua. Con la crisi mondiale, poi, mi sono accorto che è stato un errore non limitare l’immigrazione. Molti miei connazionali arrivati qui convinti di trovare il paradiso, oggi persuadono gli amici in patria a restare dove sono». Per rimuovere il primo ostacolo don Domenico e altri volontari hanno iniziato a tenere corsi di italiano di dieci ore la settimana, «un flusso enorme di persone a dimostrare che non è vero che tutti i cinesi non vogliono integrarsi».
Perché allora tanti adulti non parlano ancora l’italiano? «Perché devono prima pensare a sopravvivere. Se non passano tutto il giorno al lavoro sono in giro a cercarlo: non c’è tempo per gli studi, né tanto meno per mantenerseli. Ma quando si è sparsa la voce che qui si tenevano lezioni gratuite la sera tardi, sono arrivati a frotte e hanno iniziato a venire anche da altre zone di Milano». Questo è un primo passo perché la lingua non sembra sufficiente ad avvicinare due mondi così distanti, «uno incentrato sulla persona e l’altro solo sul gruppo». Don Domenico spiega che molti suoi connazionali tornano in parrocchia anche la domenica o per le attività ricreative «quando capiscono che qui c’è qualcuno su cui poter contare. Ci chiedono di imparare a sbrigare certe pratiche o semplicemente di passare il poco tempo libero insieme».
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«Solo a festeggiare il Natale eravamo in duecento, mentre al pranzo organizzato per il capodanno cinese, lo scorso 14 febbraio, su quattrocento persone duecento erano cinesi e di queste solo la metà erano cattoliche». E qual è la ricetta di una convivenza che altrove sembra impossibile? «Io non faccio altro che riproporre quel che è capitato a me e ripetere a queste persone, quando arrivano esauste dopo una giornata passata a lavorare come macchine: “Che cosa state qui a fare? Per che cosa lavorate e faticate?” E questo li incuriosisce perché in Cina non è facile che qualcuno te lo domandi».
Sono ormai una sessantina gli iscritti al catechismo, «perché vogliono capire di più, mentre tanti altri, soprattutto non credenti, ci girano intorno perché si sentono accolti da tutta la comunità». Vuole dire che sono nate amicizie tra cinesi e italiani? «Non è facile, serve una mediazione, ma accade. Per questo abbiamo anche aperto per gli italiani un corso nella mia lingua». Certo l’integrazione non si realizza in un giorno, ma «con l’aiuto di Dio e dei fratelli italiani siamo diventati buoni amici di molte persone e per me questa è un’esperienza bellissima. Per non parlare delle conversioni capitate in meno di due anni dal mio arrivo, con sei cinesi che si sono battezzati nel 2009 e oltre dieci che lo faranno la prossima Pasqua». Ma forse questa è un’altra storia, un dato anomalo anche per la più italiana, cattolica e romana delle parrocchie.
(Benedetta Frigerio)