Sono tante le voci che si sono levate, in questi giorni, a stigmatizzare la sentenza emessa dal tribunale di Milano, che ha condannato al carcere i dirigenti di Google, rea di aver ospitato sulla sua piattaforma YouTube il video del pestaggio di un ragazzo affetto dalla sindrome di Down. Quasi quante quelle che si erano fatte sentire, qualche giorno prima, per deplorare il gruppo costituito sul social network Facebook, che si proponeva niente meno che il tiro al bersaglio con i ragazzi down. Probabilmente, altrettante di quelle che, non più di un paio di settimane fa, si erano unite al coro del Safer Internet Day, la giornata dedicata a sensibilizzare gli utenti della Rete – i più giovani in particolare – a un utilizzo più prudente e responsabile delle sue risorse (contraddistinta da slogan come “posta con la testa” e “pensaci bene, prima di metterlo online”). È possibile che tutte queste voci siano anche le stesse? Non suona contraddittorio che siano stati gli stessi soggetti – esperti del web 2.0, blogger (o come si usa dire, “blogstar”), giornalisti, guru dei media e accaniti navigatori – a difendere ora l’una ora l’altra di queste posizioni? Chi oggi si scaglia contro la decisione dei giudici milanesi, rei di minacciare la tanto decantata libertà di Internet, lo fa in nome di valori e convinzioni senz’altro rispettabili; valori e convinzioni che faticano, tuttavia, a convivere con quei valori e quelle convinzioni che hanno spinto loro, insieme ad altri, a ritenere intollerabile che un gruppo di persone possa coalizzarsi, realmente o virtualmente, per insultare altre persone, altri esseri umani, ed esercitare nei loro confronti un’istigazione alla violenza, o addirittura una violenza fisica, affatto mitigata dal filtro digitale. Se nel primo caso si parla, non sempre a proposito, di libertà, nel secondo è in gioco la responsabilità: due termini indissolubilmente connessi, impossibili da scindere, poniamo, per difendere il primo a discapito del secondo, o per sposare ora uno ora l’altro a corrente alternata.
È difficile definire la cosiddetta libertà del Web; più difficile ancora affermare che riguardi l’informazione, non essendo questa la principale né la migliore delle missioni che la Rete si propone; difficilissimo sostenere che le sue ragioni possano e debbano obliterare quelle della responsabilità – personale, ma anche civile e penale che ognuno deve assumersi per le sue parole ed azioni, a prescindere dal veicolo scelto per diffonderle. Chi oggi abbraccia la causa (non del tutto disinteressata, dal punto di vista di Google) di YouTube coincide in larga parte con chi ieri si è opposto a qualsiasi disegno di legge o emendamento proponesse di estendere ai contenuti diffusi su Web la responsabilità (e quindi la punibilità) già vigente per quelli diffusi a mezzo stampa; ma coincide anche con chi più strenuamente difende, da tempo, la tesi della progressiva scomparsa della “vecchia” editoria in favore di quella digitale, della cannibalizzazione dei quotidiani ad opera del citizen journalism telematico, dell’inesorabile destino che attende le testate cartacee aggredite dai cosiddetti user generated content. Se è dunque vero che il Web 2.0 rappresenta in tutte le sue forme il futuro del giornalismo, perché non dovrebbe riconoscere le sue stesse regole – non solo e non tanto mediatiche, ma almeno etiche e civili? Se è vero che saranno sempre più gli utenti a produrre contenuti e notizie, perché non dovrebbero risponderne davanti alla legge? E se è vero che gli editori che spacciano informazioni false, dannose e contrarie alla legge sono perseguibili al pari dei giornalisti che ne sono autori, perché tanto non dovrebbe valere per le piattaforme che hanno lanciato la loro sfida all’editoria “tradizionale”, sottraendo ad essa la selezione, diffusione e promozione dei contenuti?
Ancora: ci si potrebbe domandare che senso abbia auspicare un Internet responsabile, tentare di insegnare ai ragazzi a non trattare il Web come un’entità evanescente e incapace di nuocere, pretendere da loro il rispetto sulla Rete delle stesse regole che vigono nel mondo reale, se alla prima occasione ci profondiamo a invocare una nutrita serie di eccezioni che esonererebbero la stessa Rete dal rispetto di quelle regole, a meno di casi eclatanti (ma perché lo hosting di foto pedopornografiche dovrebbe distinguersi da quello di un video come quello del pestaggio, se non per una questione di gradi?). Non possiamo pensare di trasferire ai giovani il richiamo alla responsabilità, se non ne diventiamo seguaci in prima persona: il che significa di certo rifuggere dall’immissione indiscriminata in Internet di materiale sensibile, che riguardi noi o altri, e che possa un giorno ritorcersi contro di noi; ma significa anche smettere di tollerare la diffusione attraverso la stessa Internet di messaggi violenti, persecutori, fiancheggiatori del crimine in tutte le sue forme – dal terrorismo internazionale alla pedofilia allo stalking; e ancora, significa rispondere con nome e cognome di ogni contenuto affidato al Web, dagli articoli delle webzine ai post sui blog alle foto su Facebook, anche di fronte alla legge; e infine, significa pretendere da chi oggi aspira a sostituire le colonne portanti del sistema mediatico e culturale che si faccia carico, insieme agli onori che ne derivano, anche dei relativi oneri. Libertà, insomma, insieme, e non contro, la responsabilità.