Il 27 gennaio il Consiglio d’Europa ha eletto Guido Raimondi quale giudice di nazionalità italiana presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (la Corte di Strasburgo, da non confondere con l’Unione Europea di Bruxelles, quella che da anni – a ragione – ci richiede a suon di decisioni di avere processi più brevi, quella che di recente – a torto – ci condanna per avere i crocefissi appesi nelle classi). Il precedente giudice, Vladimiro Zagrebelsky, avrebbe raggiunto in marzo il limite massimo di età (70), e per questa ragione ci si è premuniti per tempo con l’elezione del nuovo giudice. La notizia non è stata diffusa dai nostri media. A noi sembra, invece, un fatto degno di nota per la straordinaria importanza delle questioni che tocca tale organo.



Com’è stato eletto? Siamo stati consultati? Il Parlamento si è pronunciato? No, niente di tutto questo. La procedura è semplice, anche se poco nota. Ogni Paese membro del Consiglio ha un giudice della propria nazionalità presso la Corte (ce ne sono, quindi, 47). Il giudice non risponde al proprio governo, ma è indipendente. Per diventare giudici presso la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo occorre essere eletti in una riunione dei rappresentanti di tutti i 47 paesi membri del Consiglio d’Europa (su tale istituzione si veda www.coe.int). Chi si presenta a tale riunione per farsi eleggere? La Convenzione dice solo che il Consiglio elegge un candidato tra una terna di persone indicate dallo Stato. Come si scelgono quelle 3 persone da nominare? Ogni Stato fa come preferisce. In Italia è il Governo che se ne occupa. L’estate scorsa il Consiglio dei ministri ha richiesto di mandare le proprie autocandidature a chi si fosse ritenuto idoneo, da quelle autocandidature si sarebbero poi scelte 3 persone da mandare a Strasburgo dove il Consiglio ne avrebbe votata una. Il risultato di tale procedura è stato che Guido Raimondi è divenuto il nuovo giudice.



Lo spessore professionale di Guido Raimondi è veramente eccezionale: giudice di Cassazione, consigliere giuridico dell’Organizzazione internazionale del lavoro di Ginevra (una delle organizzazioni internazionali più antiche e prestigiose, nata ben prima delle Nazioni Unite), consigliere giuridico per lo Stato italiano e giudice ad-hoc in numerose cause presso la Corte di Strasburgo. Nel proprio Dna ha il carattere del giudice nazionale, dell’internazionalista, nonché dell’avvocato e del giudice internazionale.

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Tuttavia tale nomina ci consente di aprire alcune finestre su un problema che ci sembra vada affrontato. La nostra Costituzione venne votata nel 1948. All’epoca, ci insegnano i manuali di diritto costituzionale e internazionale, la politica estera era affare dei governi. Il diritto internazionale era un “diritto degli stati e per gli stati” (inter nationes), e chi si occupava nell’arena globale dell’Italia era l’esecutivo, monarca o Consiglio dei ministri che fosse. La nostra Costituzione ha recepito tale impostazione: dei trattati e della politica estera se ne occupano in teoria il Presidente della Repubblica e il Governo, in pratica il solo Governo. Per pochissimi atti si richiede un’autorizzazione preliminare del Parlamento italiano.

 

Oggi, però, le cose non sono più come allora: dal 1948 il diritto e le istituzioni internazionali non si occupano più solo degli affari tra gli stati, ma anche del mondo in cui i privati cittadini stanno tra loro. Se fino al 1948 si parlava di un diritto esterno allo stato, tra le nazioni, oggi il diritto internazionale si occupa anche del diritto interno allo stato, del diritto tra i cittadini. Tralasciamo l’esempio più eclatante, l’Unione europea, che è a tutti noto, e consideriamo anche altro: gli investimenti internazionali delle grandi imprese sono garantiti dai trattati bilaterali di investimento; il commercio internazionale è regolato dall’Organizzazione mondiale del commercio; le legislazioni nazionali sono monitorate dalle varie corti e comitati sui diritti dell’uomo. Che senso ha che di tutte queste cose se ne occupi solo il Consiglio dei ministri, senza che nemmeno si possa interagire con tali dinamiche da parte del Parlamento e del popolo?

 

Tale questione può sembrare populista, ma non lo è: è una questione che va girata direttamente a chi si sta occupando delle riforme costituzionali. Il silenzio sul punto da parte della bozza Violante di riforma costituzionale, quella indicata come punto di partenza per un dialogo in Parlamento, è assordante, eppure essa si occupa diffusamente dei rapporti tra Parlamento e Governo. Il cambiamento dal ’48 ad oggi è stato così epocale che su molte materie internazionali ci vorrebbe l’obbligo di consulto popolare referendario (perché sull’Unione europea e Lisbona nessuno ha chiesto al popolo cosa ne pensa?), e su molte altre, magari più tecniche, ma comunque rilevanti per la vita politica del Paese, ci vorrebbe almeno il parere del Parlamento (perché la terna di Strasburgo la deve decidere il Governo, e non vi dev’essere un pubblico dibattito in Parlamento? La nomina di un giudice che si occupa dei diritti dell’uomo ha un forte indirizzo politico, ma oggi non ci è data la possibilità che di ciò se ne discuta in pubblico, nemmeno nel selezionato pubblico del Parlamento).

 

Perché si continua a non occuparsi di queste cose? Perché accettiamo, persino in un periodo di dibattito sulle riforme costituzionali, che su tale argomento regni il silenzio, e che certe cose stiano ben lontane dalla nostra possibilità di pronunciarci?

 

(Sante Pollastro)