Fiesco, provincia di Cremona. Anna si è raccomandata di non chiamare nel primo pomeriggio, perché dopo pranzo Italo è impegnato negli esercizi quotidiani di ginnastica che i volontari gli fanno fare, per mantenere la mobilità delle articolazioni e l’esercizio muscolare. Altrimenti rischia la paralisi e il blocco respiratorio. Italo è in un letto, comunica con gli occhi, solo con gli occhi.
Papà Giuseppe e mamma Anna si fanno in quattro. «Quando Italo ha fatto vent’anni di coma, è finito sui giornali. Però non ci interessa comparire – spiega Anna -, ma solo che qualcuno ci aiuti un po’ di più. Lei ci chiede la nostra storia. Tutta la nostra vita è Italo. Non è che ci sia da spiegare granché: basta guardarlo. Noi gli vogliamo bene così».
Un anno fa, in una clinica di Udine, si spegneva Eluana Englaro. Una sentenza autorizzava il tutore a sospendere ogni cura, compresa alimentazione e idratazione, perché il suo stato era giudicato irreversibile e non c’era più alcuna possibilità – questa la tesi dei giudici – che lo stato della ragazza potesse cambiare.
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Di Eluana ha parlato per mesi un Paese intero. Già allora però i più accorti facevano notare che dietro la cortina del rumore mediatico migliaia di famiglie, in silenzio, accudivano un loro caro nelle stesse condizioni di Eluana. Senza nessuna battaglia per vedere riconosciuto il diritto a morire. Piuttosto alle prese con i propri cari, amati di un affetto grande e discreto, che non appare. Lo stesso affetto che hanno Anna e Giuseppe Triestino per il figlio Italo.
La sua «storia» è molto semplice, un fatto di quelli che dividono la vita in un prima e in un dopo. «Il 18 luglio 1989 – racconta il padre Giuseppe – Italo è rimasto vittima di una disgrazia. Era in macchina con un amico, una semplice serata tra amici. Chi guidava ha avuto un colpo di sonno e sono andati fuori strada. I suoi amici se la cavano ma Italo sbatte violentemente la testa. Lì è cominciato tutto. È stato un po’ in coma profondo, poi è entrato in coma vigile. Mano a mano ha aperto gli occhi, si è ripreso. Fino ad essere com’è ora».
«Italo è tutta la nostra vita – dice Anna -. Dobbiamo ringraziare Dio, che vuol tanto bene a Italo. E anche a noi, perché altrimenti non ci avrebbe mandato così tanta brava gente ad aiutarci. Parlo di tutti i volontari che gli fanno fare le quatto-cinque ore di riabilitazione di cui ha bisogno ogni giorno. E che gli vogliono bene. Non come a un corpo immobile, ma come ad una persona viva». Lei quindi parla con lui? «Sì, tutti parliamo con Italo. Lui ci risponde con gli occhi. Io sto parlando con lei al telefono, lui è qui dietro di me e ci guarda, ha appena girato gli occhi».
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Sembra che le persone come Italo, che giacciono immobili in un letto, non dicono niente e muovono, quando va bene, solo con gli occhi, valgano meno degli altri. Che la loro vita abbia meno senso della nostra. «No, chi lo pensa è un criminale. Io – dice Giuseppe – curo Italo da vent’anni come fosse un angelo, e siamo contenti così. Anzi ho detto male: Italo è il nostro angelo. Perché ci si scandalizza di fronte alla debolezza umana? È come ritornare bambini. Un bambino non ha bisogno di tutto? Lo chieda ai volontari che tutti giorni vengono ad aiutarci, cosa pensano. Certo bisogna vedere se uno è pregiudizialmente per la vita o per la morte».
Sergio frequenta casa Triestino da due anni, come volontario. «Italo fa tutto con gli occhi. Se gli fai male ti fa capire che gli stai facendo male – racconta -, se gli dai da mangiare qualcosa che non gli piace, lo manifesta. Deglutisce, è alimentato per bocca, va aiutato e tenuto sott’occhio perché non si faccia male alla lingua. Risponde al gusto, al tatto. Io mi sono affezionato. Italo è diventato parte della mia vita».
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«Giuseppe e Anna? Lasci dire a me quello che loro non possono dire. Vivono per lui. Proprio perché è debole e ha bisogno degli altri, gli vogliono ancor più bene. Vieni qui e rispetto all’egoismo che c’è in giro hai la sensazione di un abisso. Non mi era mai accaduto prima di vedere un amore più grande tra un padre e e una madre e il loro figlio. Non è il sacrificio di un istante, ma del giorno per giorno».
Anna e Giuseppe non hanno mai abbandonato la speranza che il loro figlio un giorno possa risvegliarsi. Per questo lo hanno portato a casa, sfidando i medici. «Non volevano lasciarcelo portare via – racconta la mamma – perché pensavano che non ce l’avremmo fatta. Invece siamo ancora qui».
«Staccare la spina? Ci siamo scontrati con i medici di Bergamo, là uno di loro voleva farlo davvero. Perché studiano una vita per salvare le persone e poi all’ultimo vogliono farle fuori? Lo abbiamo portato via. È il mio cuore a dirmi che Italo non muore. Persone così vanno curate; quando Dio le vorrà, le prenderà; se no, sta a noi occuparci di loro».