Ieri sera al Palasharp di Milano oltre 10.000 persone hanno accolto con molto calore l’intervento del Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, S. Em. Card. Angelo Bagnasco, e del Presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, don Julian Carron, sul tema “L’avventura Educativa”.
L’incontro, moderato da Roberto Fontolan, si è aperto con l’intervento di Mons. Mario Delpini, Vescovo ausiliare della Diocesi di Milano, che ha portato il saluto e il ringraziamento agli organizzatori dell’Arcivescovo di Milano, Card. Dionigi Tettamanzi, e da alcune interessanti testimonianze provenienti dal mondo della scuola, dell’università e del lavoro.



L’avventura educativa – Introduzione di Julián Carrón

«Il tema principale, per noi, in tutti i nostri discorsi, è l’educazione: come educarci, in che cosa consiste e come si svolge l’educazione, un’educazione che sia vera, cioè corrispondente all’umano» (L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano 2005, p. 15).



Niente più di questa frase di don Luigi Giussani spiega in modo solare e definitivo come il carisma a lui donato trovi nell’educazione la sua dimensione più decisiva. La sua costante preoccupazione – che per grazia di Dio è divenuta anche la nostra – è stata quella di «educare il cuore dell’uomo così come Dio l’ha fatto» (Il rischio educativo, pp. 15-16), cioè di evocarne e sostenerne l’apertura instancabile alla realtà, sospinta da quei desideri nativi e da quelle esigenze inestirpabili che ne costituiscono la stoffa, prima ancora di qualsiasi condizionamento culturale e sociale.



In questo momento storico, ancora una volta, la sfida più decisiva che ci incalza è proprio quella dell’educazione. Due anni fa il santo padre Benedetto XVI ha messo davanti a tutti i cristiani e agli uomini di buona volontà questa urgenza: «Educare […] non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita. […] Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita» (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008).

Sta venendo dunque meno – è sotto gli occhi di tutti – la solidità dell’umano. Per certi versi, noi abbiamo vissuto della rendita di una tradizione. Adesso che il cristianesimo, la tradizione, è sempre meno incidente e che prevale tutt’altro, ci troviamo davanti a una paralisi, a una incapacità di interessarsi ad alcunché (lo sanno bene gli insegnanti che entrano in classe ogni giorno).

Con la sua dote profetica, don Giussani individuava già nel 1987 questa deriva, che oggi è dilagata: «È come se tutti i giovani [e adesso, possiamo dire, anche molti adulti] di oggi fossero tutti stati investiti dalle radiazioni di Chernobyl [da un’enorme esplosione nucleare]: l’organismo, strutturalmente, è come prima, ma dinamicamente non è più lo stesso. Vi è stato come un plagio fisiologico operato dalla mentalità dominante» (L. Giussani, L’io rinasce in un incontro (1986-1987), BUR, Milano 2010, p. 181, in corso di pubblicazione).

Questa mentalità provoca una estraneità a noi stessi, che rende astratti nel rapporto con se stessi e affettivamente scarichi. La conseguenza è quel «misterioso torpore», di cui parlava tanti anni fa Pietro Citati (P. Citati, «Gli eterni adolescenti», la Repubblica, 2/8/1999, p. 1). Questo ci dice la profondità della crisi. Non è innanzitutto di natura morale, ma è una vera e propria crisi dell’umano.

A che cosa appellarsi, allora, per ripartire? Non possiamo fare appello alla tradizione, che per tanti è completamente sconosciuta o è gravemente frammentata in coloro in cui ne rimane traccia. L’unico appiglio che abbiamo è quello che nessun potere può distruggere e che rimane sotto tutte le possibili macerie: l’«esperienza elementare» (L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 8) dell’uomo, il suo cuore che contiene le esigenze costitutive di verità, di bellezza, di giustizia…

È qui dove il cristianesimo può, di nuovo, mostrare la sua verità e dare un contributo decisivo, proprio dove tutti gli altri stanno fallendo. Questo contributo sarà possibile solo se l’attuale circostanza storica – così difficoltosa – verrà affrontata come una grande avventura, come una opportunità per una nuova autocoscienza della natura del cristianesimo. Infatti, una fede ridotta a etica o a spiritualismo (a questo è stato ridotto il cristianesimo dalla modernità) non è in grado di rispondere alla sfida. La storia lo ha ampiamente documentato. Solo un cristianesimo che si presenta secondo la sua vera natura, cioè quella di “fatto storico” che si documenta in una diversità umana, può essere in grado di dare un vero contributo a questa situazione problematica.

E allora, «dove si può ritrovare […] la persona?» si domandava don Giussani. «Quella che sto per dare non è una risposta alla situazione in cui versiamo […]; è una regola, una legge universale da quando l’uomo c’è: la persona ritrova se stessa in un incontro vivo, vale a dire in una presenza in cui si imbatte e che sprigiona un’attrattiva, […] vale a dire provoca al fatto che il cuore nostro, con quello di cui è costituito, con le esigenze che lo costituiscono, c’è, esiste». È una presenza che muove, che produce uno sconvolgimento carico di ragionevolezza, una sommossa del nostro cuore. Quella presenza fa ritrovare l’originalità della propria vita, cioè «una corrispondenza alla vita secondo la totalità delle sue dimensioni. Insomma, la persona si ritrova quando si fa largo in essa una presenza – questa è la prima evidenza – che corrisponde alla natura della vita, e così l’uomo non è più nella solitudine » (L’io rinasce in un incontro, p. 1834).

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Due sono allora i fattori di una rinascita dell’esperienza educativa.

In primo luogo, la consapevolezza del metodo. L’unica cosa in grado di svegliare l’io dal suo torpore, non è una organizzazione o un richiamo etico più accanito, ma l’imbattersi in una diversità umana. Perché questo possa accadere occorrono – ed è il secondo fattore indispensabile – degli adulti che incarnino nella loro vita una «risposta plausibile» (così la definiva a Genova Sua Eminenza il cardinale Angelo Bagnasco, nell’omelia alla Messa per il quinto anniversario della morte di don Giussani, Genova, 23 febbraio 2010), che possa offrirsi agli altri. Si tratta di una straordinaria possibilità di verifica: partecipando all’avventura educativa, cercando cioè di introdurre altri uomini alla totalità del reale, viene a galla senza possibilità di astrazioni se noi per primi partecipiamo all’avventura della conoscenza. Don Giussani ci ha sempre detto che la forma dell’educazione è la «comunicazione di sé» (L. Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, Società Editrice Internazionale, Torino 1995, p. 172), cioè del proprio modo di rapportasi con la realtà; perciò noi possiamo educare solo se per primi accettiamo la sfida del reale, comprese le paure, le difficoltà, le obiezioni. Proprio questo mostrerà a tutti la portata della fede come risposta alle esigenze di un uomo ragionevole del nostro tempo. E renderà per ciascuno di noi entusiasmante e carica di speranza l’avventura educativa.

 

Attraverso l’incontro di questa sera vorremmo, dunque, corrispondere alla preoccupazione educativa della Chiesa italiana, riecheggiata anche di recente nelle parole del nostro arcivescovo Dionigi Tettamanzi (durante la Messa per il quinto anniversario della morte di don Giussani): «Il giudizio cristiano sulla realtà, la formazione della coscienza secondo la fede cristiana si pone come fondamento e forza di quell’impegno educativo che rappresenta senza alcun dubbio, come spesso ripete il Santo Padre, una delle attuali priorità pastorali della Chiesa. I Vescovi italiani intendono raccogliere questa sfida e la presentano come decisiva per il prossimo decennio pastorale. Penso che l’insegnamento, la vita, le opere di don Giussani abbiano al riguardo ancora tanto da offrire alle nostre comunità» (D. Tettamanzi, «Un’eredità spirituale e pastorale da vivere», Omelia alla Messa nel V anniversario della morte di Luigi Giussani, Milano, 22 febbraio 2010).

 

Strappare l’uomo dal torpore, richiamarlo all’essere: questo è il livello elementare e decisivo dell’educazione. E questo è davvero possibile, come esito, solo se accettiamo e diventa nostro lo sguardo di Cristo sulla realtà: «Dio si dà, dà se stesso all’uomo. E Dio cos’è? La sorgente dell’essere. Dio dà all’uomo l’essere: dà all’uomo di essere; dà all’uomo di essere di più, di crescere; dà all’uomo di essere completamente se stesso, di crescere fino alla sua compiutezza, cioè dona all’uomo di essere felice» (L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p. 327).

 

 

L’avventura educativa – lezione del card. Angelo Bagnasco

Istanze educative e questione antropologica

 

0. Premessa

 

Sono lieto di essere qui con voi per parlare di qualcosa che non solo ci sta a cuore, ma che sentiamo essere parte del nostro essere persone e credenti. Cioè del nostro essere discepoli del Maestro – il Signore Gesù – che non cessa di educare ad una umanità nuova e piena. Egli continua a parlare all’intelligenza e a scaldare il cuore di coloro che si aprono alla sua verità e al suo amore e accolgono la compagnia dei fratelli per fare esperienza della novità del Vangelo e così annunciare a tutti la gioia e il fascino di un incontro che cambia la vita e che fa fiorire l’umano. La Chiesa continua l’opera del suo Signore, e la sua storia bimillenaria è un intreccio di evangelizzazione e di educazione: annunciare la persona di Cristo, vero Dio e vero uomo, significa portare a pienezza l’uomo e quindi creare cultura e civiltà. A volte, a fronte di tante situazioni di violenza vecchie e nuove, al mondo ancora così lacerato da squilibri e ingiustizie, o a forme di involuzione culturale, potremmo chiederci: quanto ha inciso il Cristianesimo nell’elevazione dell’umanità, quanto efficace è stata ed è la predicazione della fede? Potremmo risponderci: e che cosa sarebbe stato e sarebbe il mondo senza il Vangelo di Cristo? Senza la presenza della Chiesa con i suoi sacerdoti, i religiosi e le religiose, i laici, i gruppi, le associazioni, i movimenti, le istituzioni di carità e di promozione, di ascolto? Senza il vortice di continua preghiera che si eleva a Dio da ogni parte della terra da secoli e che eleva i cuori di moltitudini, rende la coscienza migliore, la rafforza contro il male? Senza quella rete sterminata di piccole luci che rendono l’universo più luminoso? E dove sarebbe quel popolo immenso sparso sino ai confini della terra fatto di persone umili e buone che fanno la storia vera – quella del bene – con la loro vita riferita a Cristo? Conosciamo i limiti e gli errori della condizione umana, ma ciò non può oscurare l’esperienza secolare della comunità cristiana.

 

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I Vescovi italiani hanno scelto, come Orientamenti Pastorali per il decennio appena iniziato, proprio la sfida educativa: responsabilità e grazia! Grazia perché significa continuare a “comunicare il vangelo in un mondo che cambia”, e significa declinarlo nella dimensione specifica dell’educazione. Responsabilità perché se educare mai è stato facile, oggi si tratta di accettare la sfida che viene dalla complessità spesso contraddittoria della cultura e della società. Il Santo Padre Benedetto XVI non solo ci esorta a questo con il limpido e puntuale Magistero, ma ci precede sulla via educativa del popolo di Dio, avendo chiaramente nello sguardo e nel cuore ogni uomo, poiché l’umanità piena che si rivela in Gesù, e in Lui si incontra, non esclude nessuno.

 

La felice espressione “emergenza educativa”, divenuta tanto familiare in questi ultimi tempi dentro e fuori della Chiesa, può risultare particolarmente arricchita se la si legge con un occhio attento alla lezione di un grande filosofo e teologo dell’ottocento italiano, il beato Antonio Rosmini. La sua prospettiva mi sembra vada ad incrociare punti cruciali emergenti nell’attuale contesto culturale e pastorale. 

 

E per cogliere tutta la portata del contributo positivo che può venirci dalla prospettiva rosminiana, e che va nella direzione di un arricchimento del senso che all’ “emergenza educativa” ha voluto dare lo stesso Benedetto XVI, torna utile ricordare che le “emergenze”, per loro natura, non fanno parte della vita ordinaria e della storia quotidiana delle persone; esse irrompono tanto improvvise quanto inattese. Mentre né inattesa né improvvisa può essere ritenuta l’esigenza di educare e di educarsi, dal momento che, come scrive il Rosmini, «l’educazione è un affare gravissimo» (Dell’educazione cristiana, Città Nuova ed., Roma 1994, p.47), nel senso di “affare di grande portata”, per il fatto che essa mira a «rendere l’uomo stesso buono con riguardo a tutte le circostanze nelle quali si trova; [rendere l’uomo] capace di usare di esse, e di tutti gli altri mezzi al vero vantaggio di sé e d’altri; e [renderlo] così autore del proprio bene e specialmente della propria virtù e della propria felicità» (Idem, Scritti vari di metodo e di pedagogia, Unione Tipografica Ed., Torino 1883, p.499). E questo, aggiunge Rosmini, appartiene ad ogni uomo, in ogni fase della sua vita, dal momento che a tutti gli uomini è chiesto spendersi per realizzare il bene.

 

In altri termini, se è vero che la società contemporanea è attraversata sempre più da deficit preoccupanti di “buona educazione”, è anche vero che una risposta efficace non può venire da una comunità che si limita ad affrontare questo deficit come se si trattasse di una “emergenza” piuttosto che di un “compito” quotidiano.

 

E, a richiedere che quello pedagogico venga considerato un compito quotidiano, non sono circostanze episodiche, seppure preoccupanti né il moltiplicarsi dei segnali di cattiva o inesistente educazione. A chiedere che quello pedagogico venga considerato un compito quotidiano è la natura stessa dell’uomo. Tanto che non è affatto azzardato affermare che la “questione pedagogica” (o se si vuole, l’emergenza educativa) va di pari passo con la “questione antropologica”.

 

Le circostanze che fecero da sfondo alle pagine pedagogiche del nostro Autore presentano forti analogie con quelle odierne, che stanno chiamando a raccolta le energie più sensibili intorno all’emergenza educativa e, tra queste, la stessa Chiesa italiana.

 

È noto l’enorme dispendio di energie messo in campo sia dall’Illuminismo sia dal Liberalismo di fine Settecento inizi Ottocento. Sia l’uno che l’altro non tralasciarono il ricorso a strumenti di propaganda e di formazione che facevano coincidere la razionalizzazione delle attività lavorative e il miglioramento della qualità della vita con un deciso e progressivo allontanamento dalla religione e dall’etica cristiana. La conseguenza più immediata dell’offensiva illuministico-liberale si presentò subito con i caratteri di una evidente frattura tra cristianesimo e società civile e politica, aprendo per la Chiesa un nuovo ed inedito fronte missionario.

 

Rosmini, di fronte a questa situazione, non veste né i panni del rinunciatario né quelli dell’ottuso oppositore: la validità della sua impostazione – “apologetica”, nel senso più alto della parola – trova fondamento nello stretto legame tra filosofia, antropologia, pedagogia; legame che, a sua volta, garantisce la consequenzialità tra pensiero teologico ed istanze etiche, politiche e di natura giuridica.

 

In questo quadro, l’educazione della persona non si presenta affatto come un compito marginale o comunque da invocare in momenti di “emergenza”, quanto piuttosto come la prosecuzione del “governo divino del mondo” «con cui ordinando e disponendo gli avvenimenti (Dio) educò il genere umano e l’educa di continuo» (Idem, Sistema filosofico, n. 244).

(…)

 

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