Vivere sino a 120 anni. È da un po’ che informazione scientifica, guru della medicina e anche tanti personaggi pubblici hanno fatto suonare questa sirena tentatrice alle nostre orecchie. Se ne è parlato anche settimana passata, a proposito di due personaggi di appartenenza culturale tanto diversa ma uniti in questa convinzione: sono don Verzé, il fondatore del San Raffaele, e Umberto Veronesi, il celebre oncologo che alle porte di Milano sta costruendo un impero per la lotta al cancro.
C’è qualcosa di malsano in questa utopia da vita infinita, in questo rilancio in un tempo sempre più indeterminato e illusoriamente infinito. Quasi che il prolungamento dell’esistenza possa in qualche modo compensarne il vuoto.
C’è un che di malsano nel sentire ipotesi di questo tipo in una società che pervicacemente lascia al loro destino i suoi (per altro pochissimi) giovani. Una società che non sa più fare figli ma che si preoccupa di custodire se stessa sino alle soglie di un’impossibile eternità. Da una lato è un sogno di insensato egoismo, dall’altro è un modo per chiudere fuori dalla porta le grandi domande di senso lasciate inevase.
120 anni? No, grazie. Noi preferiamo pensare e occuparci della vita che abbiamo davanti a noi. Della vita prossima, quella che c’è e che ci circonda. Non barattiamo la consistenza del presente con i luccichii psichedelici del futuro. In questa tentazione un po’ mefistofelica di sfidare il limite spostandolo sempre più in là, si avverte quasi un senso di disprezzo per il presente. Con che faccia e in base a quale morale si possono inseguire conquiste come queste, quando ci si trova a vivere in un mondo in cui un’enorme fetta di umanità fatica a raggiungere un livello e una quantità di vita appena dignitosa?
I 120 anni sono il simbolo di un mondo sempre più spezzato in due. In cui c’è chi può permettersi ogni tipo di privilegio, compreso quello di avere una quantità tripla di esistenza, e c’è chi invece è stato lasciato su un binario morto, con poche briciole di futuro. È una forma di prepotenza morale da parte degli uomini che vivono in prima classe nei confronti di tutti gli altri, la stragrande maggioranza, che arrivano ansimando a chiudere la loro giornata.
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Per tutti questi motivi l’idea dei 120 anni è un’espressione di egoismo sociale. Ma c’è un altro motivo che rende inquietante questo sogno: infatti è come se si volesse estirpare dalla coscienza degli uomini quella dimensione di limite che invece è costitutiva. E che cos’è l’uomo privato di questa dimensione se non un uomo destinato ad essere creatura sempre più artificiale? Un uomo proprio per questo sempre più manipolabile?
E, infine, c’è anche un che di disumano, di gratuitamente crudele nel censurare quella umanissima stanchezza di vivere che ad un certo punto coglie le persone («l’uomo non può sopportare troppa realtà», ammonisce una poesia di Eliot). Come scrisse il grande Albert Einstein «l’universo non è i miei numeri: è pervaso tutto dal mistero. Chi non ha il senso del mistero è un uomo mezzo morto». 120 anni così? No, grazie.
(L’articolo è tratto dal numero del settimanale Vita in edicola oggi)