Scriveva Giovanni Testori che le parole hanno una loro forza, proveniente dal significato cui rinviano e dall’esperienza che inverano, che non può essere ignorata («Ciò che importa è dirle, certe parole. / Una volta dette / non lasciano più pace…», in Conversazione con la morte, Rizzoli, 1978). Ciò a meno di non stravolgere la realtà sottesa alle medesime parole e di misconoscerne la storia di provenienza, sino ad esporsi al peso delle relative conseguenze (in tal caso «anche le parole, sì, anche loro / ci punteranno contro il dito!»).



Come per le parole è anche per gli istituti giuridici, posto che, riprendendo la lezione di Costantino Mortati, il fenomeno giuridico rappresenta la proiezione su scala sociale del fenomeno individuale. Anche gli istituti giuridici restano vincolati alla storia che li ha generati ed alle necessità sociali interessate: non può esserne ignorata la realtà di riferimento, né è possibile estenderne indiscriminatamente i confini semantici, quasi a poterli trasformare in contenitori senza vincoli di forma e di capienza.



Orbene, questo caposaldo del vivere umano emerge anche dalla lettura della pronuncia della Corte costituzionale in tema di unioni omosessuali (sent. n. 138/2010). La Corte ha sventato l’attacco della indiscriminatezza senza limiti, della parificazione egualitaria, della equiparabilità a tutti i costi delle parole, dei significati, degli istituti e delle realtà sociali, che restano invece differenti per storia e presupposti naturali.

Ha dichiarato infondata la pretesa equiparabilità fra unioni omosessuali e famiglia legittima, posto che l’istituto del matrimonio rimane vincolato al «significato tradizionale» accolto in Costituzione ed al «carattere eterosessuale» dei coniugi. Le due figure «non possono essere ritenute omogenee» e restano «differenziabili», in ragione dello specifico «rilievo costituzionale attribuito alla famiglia legittima ed alla (potenziale) finalità procreativa del matrimonio».



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Si tratta, come è evidente, di differenze insormontabili, che rifuggono da ogni tentativo di manipolazione semantica. Pur affermando che «l’evoluzione della società e dei costumi» imponga non già una «cristallizzazione», bensì una «duttilità» dei termini e dei principi costituzionali coinvolti, la Corte ha precisato che tale operazione ermeneutica non può essere indiscriminata: «non può spingersi fino al punto d’incidere sul nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati in alcun modo quando fu emanata». In tal caso, infatti, «non si tratterebbe di una semplice rilettura del sistema», bensì di una vera e propria «interpretazione creativa».

Per tale via, (almeno questa volta) resta inesorabilmente frustrata la più generale superbia interpretativa di quella prassi che, sulla scorta dei nuovi bisogni sociali provenienti dalla realtà globalizzata, rinviene in ogni dove lacune normative da colmare in via creativa, sino ad aggirare la volontà parlamentare manifestata al riguardo (si pensi alla nota sentenza sul “caso Englaro”).

Il tutto, anche se a discapito della chiarezza del testo normativo interessato ed a detrimento della pari determinazione del legislatore sul punto. Del resto, come può essere altrimenti considerato il trarre spunto dalla mancata previsione legislativa delle unioni omosessuali, per valutare detto silenzio normativo quale “vuoto” da integrare in senso conforme alla disciplina della famiglia legittima, anziché quale impedimento a tale (indebita) equiparazione?

Più complessa ed articolata, invece, è la questione dell’ammissibilità di una disciplina legislativa diversa da quella del matrimonio, da riconoscere alle coppie dello stesso sesso ai sensi della più generale tutela costituzionale garantita dall’art. 2. In tal caso la Corte, per un verso, ha evitato ogni giudizio al riguardo, dichiarando la competenza del Parlamento «ad individuare le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette»; per altro verso, tuttavia, ha riconosciuto che l’«aspirazione» a tale riconoscimento sottende nelle persone omosessuali il «diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia», sia pur «nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge».

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Si tratta di un riconoscimento che senza dubbio apre la via legislativa alla disciplina delle coppie omosessuali; via che tuttavia resta irta di incertezze con riguardo al ventaglio dei diritti e dei doveri da assicurare nella specie. I diritti, infatti, lungi dal rimanere segregati nella sfera individuale del singolo, rinviano inevitabilmente ad una relazionalità, pongono in essere un modello sociale che si raccorda con gli altri modelli sociali e con la sfera dei diritti altrui, secondo una dinamica che non può prescindere dal complessivo quadro costituzionale.

Quali dovrebbero essere, dunque, i diritti ed i doveri «connessi» con «una condizione di coppia»? I diritti riguardanti la mera sfera delle libertà individuali? Ipotesi, in realtà, minimale e per molti versi inutile, trattandosi di diritti già sanciti «a tutti» e «senza distinzione di sesso» dalla Costituzione medesima (art. 3).

I diritti più costosi e competitivi concernenti la sfera pubblica dei diritti sociali? Ipotesi, in questo caso, più delicata, presentando il rischio di innescare una pericolosa competizione finanziaria con la famiglia legittima ai fini della utilizzabilità delle poche risorse pubbliche a disposizione; risorse, del resto, costituzionalmente assicurate alla (sola) famiglia legittima in ragione della «(potenziale) finalità procreativa del matrimonio», pure riconosciuta dalla stessa sentenza in commento.

I diritti, infine, riferibili al completamento affettivo e procreativo della coppia medesima, da realizzarsi a mezzo dell’inseminazione eterologa, se non proprio dell’adozione dei minori? Ipotesi che tuttavia arriverebbe al paradosso di privare per legge i minori del diritto di godere di due figure genitoriali di sesso differente.

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Si tratta, com’è evidente, di interrogativi immensi, che la sentenza suggerisce, senza tuttavia fornire adeguati strumenti di risoluzione. Ed anzi, alcuni rilievi sembrano aprire la via a prossimi contenziosi ed a conseguenti interventi della Consulta. Da tale punto di vista, paradossalmente, la sentenza è più problematica per quello che non dice, piuttosto che per quello che dice.

Con riguardo ai diritti «connessi con la condizione di coppia» omosessuale, infatti, l’individuazione del relativo catalogo è nuovamente posta in relazione con la condizione di «coppia coniugata»; e ciò, nonostante i rilievi sulla inequiparabilità fra le due figure rinvenibile in altra parte della pronuncia («le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio»). Resta dunque riservata alla Corte «la possibilità d’intervenire a tutela di specifiche situazioni», nel caso in cui «sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione di coppia coniugata e quella della coppia omosessuale, trattamento che questa Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza».

In tal modo, tuttavia, se il matrimonio rimane un istituto realizzato a misura della famiglia “naturale” (art. 29, comma 1, Cost.) ed insuscettibile d’adattamento a modelli di convivenza di altro genere, non così potrebbe avvenire per il catalogo dei relativi diritti, esposto invece alla possibilità di un’applicazione estensiva indiscriminatamente aperta alle coppie diverse da quella “legittima” (art. 30, comma 2, Cost.).

Il tutto, con la paradossale conseguenza di lasciare inestensibile il solo contenitore (l’istituto del matrimonio), non già il relativo contenuto (i diritti della famiglia), quasi che non esista un nesso di strumentalità fra il primo ed i secondi in ragione della specificità del primo; specificità, del resto, pure riconosciuta dalla medesima sentenza («la (potenziale) finalità procreativa del matrimonio»). E così, in definitiva, la possibilità di emancipare le parole dal loro significato originario e di lucrare i vantaggi della «interpretazione creativa» rischia nuovamente di fare capolino.