Domenica a Malta il papa ha espresso «dolore» e «vergogna», incontrando le vittime di abusi commessi da membri della Chiesa. E c’è chi dice di averlo visto piangere, Benedetto XVI. Un dolore che conferma, con la sofferenza, quel «niente sembra bastare», di fronte al male e al bisogno di giustizia, di cui ha scritto Julián Carrón il giorno di Pasqua. Ilsussidiario.net ne ha parlato con il filosofo laico Pietro Barcellona.

Nella sua lettera a Repubblica sulla vicenda della pedofilia, Julián Carrón dice che il male commesso è tale che di fronte ad esso «niente sembra bastare». L’esigenza di giustizia – nostra, delle vittime – è infinita.

È la parte della sua lettera che considero più bella, perché tocca di più la mia sensibilità. Mi è sembrata importante l’affermazione che non c’è una misura umana per colmare il dolore e l’enormità di questa ferita che viene inferta. Non c’è sete di giustizia che possa essere saziata rispetto ad un male che sembra infinito. E che colpisce così profondamente che non sembra eliminabile con le misure umane. Tutto ciò è profondamente vero.

Ecco perché – continua la lettera – la risposta all’esigenza di giustizia, essendo la nostra domanda infinita, ma infinita anche l’umiliazione subita, può essere solo la Croce di Cristo. È quello che ha detto il papa.

L’esigenza infinita e non soddisfatta porta a rimettere in campo Cristo come portatore di un messaggio in cui l’amore va oltre il male. E va oltre il male perché è oltre il mondo. Solo così salva, mi pare, la nostra dimensione umana. Personalmente avverto il comandamento di Cristo come un fatto nuovo e sconvolgente. Perché il non fare agli altri quello che non si vorrebbe fosse fatto a noi è ancora un comandamento utilitaristico, ma l’amore di Cristo è un fatto assolutamente inedito. Tuttavia le questioni che Carrón pone lasciano una domanda aperta. L’enormità del male che ci circonda non per questo soffoca in noi un grido di ragione, e di spiegazione sul perché c’è questo male. Occorre capire.

Lei che risposta si dà?

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Si può spiegare con il termine religioso di peccato, ma la pedofilia è qualcosa di  molto specifico, che richiede una diagnosi particolare. Me ne sono occupato fin dal caso di Marcinelle, in Belgio, che spalancò l’orrore su un male che da allora non ci ha più lasciato. La pedofilia può venire solo da una ferita che non è stata risanata. Lo diceva Alice Miller in un suo libro degli anni ’70, La persecuzione del bambino. Chi abusa dei bambini lo fa in nome di un odio che viene da un odio verso se stessi, da un rancore derivante da una ferita subìta e ancora sanguinante. Si abusa solo, o in gran parte, se si è stati abusati. Si odia il bambino che non si è riusciti ad essere quando si era in quell’età. Io vi vedo uno dei mali emblematici della nostra epoca storica.

 

Perché?

 

Nel niente spirituale in cui siamo immersi, i genitori non hanno più il piacere di vedere nei figli il prolungamento della loro stessa vita e della loro storia. Non c’è più la catena vivente tra le generazioni e i bambini diventano la testimonianza di una negatività. È un tradimento dell’essere padre e madre. Temo che nel futuro dovremo purtroppo aspettarci una aumento della violenza contro i bambini. Chi ne fa solo un problema della Chiesa, è in malafede. Il papa, però, ha chiesto perdono e vederlo è stato commovente. Era stanco e provato. Provato dallo scandalo di questi delitti orribili, e dalla strumentalizzazione che ne ha fatto, e che continuerà a farne, una certa stampa.

 

Carrón, citando il papa, dice che solo Cristo può colmare il nostro bisogno infinito di perdono e la nostra esigenza infinita di giustizia. Come interroga questo la sua coscienza laica?

 

Vede, l’appartenenza a un dogma di cui non si può discutere non fa per me. Ma comprendo che Cristo, figlio di Dio e figlio d’uomo, ha donato se stesso. Capisco che il suo amore è agli antipodi di un decalogo prescrittivo di leggi da osservare in modo scrupoloso e farisaico. Il rapporto vero con Cristo è rapporto con una persona, una faccia, e questo secondo me è una rottura storica con tutte le altre morali religiose. L’amore di Cristo per l’uomo è l’unico appiglio in grado di salvare l’amore umano, perché amare il prossimo come noi stessi non è più così facile. Non sappiamo quasi più chi siamo ed è difficilissimo avere stima di sé.

 

«Tutto questo – dice Carrón all’inizio della lettera – è servito per mettere davanti ai nostri occhi la natura della nostra esigenza di giustizia. È senza confini. Senza fondo. Tanto quanto la profondità della ferita».

 

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È un monito alla nostra impotenza ed è importante perché in quest’epoca non solo abbiamo perso l’infinito, ma anche il finito. È il nostro essere mortali che interroga l’oltre e l’infinito: se non fossimo destinati a morire nessuna delle nostre esperienze avrebbe il senso che ha. Oggi, invece, viviamo nella fantasia dell’immortalità, che non è l’infinito ma l’illusione di un prolungamento indeterminato della vita. È una delle negazioni pratiche dell’infinito più radicali che si possa concepire, la pretesa onnipotente di un uomo moderno molto meschino.

 

«Il papa si appella a Cristo – scrive Carrón – evitando uno scontro realmente insidioso: quello di staccare Cristo dalla Chiesa perché troppo piena di sporcizia per poterlo portare».

 

Penso che la lotta tra il demonio e l’angelo si combatta dentro di noi, ma anche dentro la Chiesa. Essa è un’istituzione e come tutte le istituzioni ha dentro le componenti «luciferine» che sono in ogni essere umano. Non mi piace che si tenti di dipingere la Chiesa come un’istituzione perfetta. Non lo è. Le istituzioni servono a salvare la memoria, e questo fa la Chiesa. Ma l’attualità di Cristo non è legata alla bontà della Chiesa. Per conto mio, anche una chiesa fatta di anticristi conserva la funzione istituzionale di salvare la memoria. Ed è la memoria a farmi rileggere il Vangelo, perché è il Vangelo quello che conta. Senza l’istituzione non sarebbe arrivato fino a noi.

 

Ieri sono stati cinque anni di pontificato di Benedetto XVI. Cosa la colpisce di Joseph Ratzinger?

 

Il suo ritorno molto forte alla figura di Cristo. Per Vito Mancuso, ad esempio, la figura di Cristo è un ingombro per l’incontro con le altre religioni. Quel che a lui sembra un ingombro, e in questo sto con Ratzinger, è l’assoluta novità del cristianesimo. È il vero antidoto a tutte le visioni che vogliono trasformare la religione in un’ecumene indistinta.

 

Aldo Schiavone su Repubblica ha detto che l’attuale crisi della Chiesa assomiglia molto ad una grande occasione persa. «Invece di elaborare una teologia della liberazione dell’umano dalle sue schiavitù millenarie, (…) ha preferito riscoprire le sue antiche vocazioni antimoderne, determinando un penoso vuoto di senso»: quel vuoto nel quale può accadere di tutto, pedofilia compresa. Che ne pensa?

 

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Guardi, a me Aldo Schiavone fa un po’ sorridere, perché io e lui eravamo amici negli anni in cui il comunismo ci appariva come una grande liberazione. Considero il progressismo e la modernità, come sono rappresentati adesso da Aldo Schiavone, un’illusione peggiore di quella che abbiamo vissuto quando eravamo giovani comunisti convinti che lo stato avrebbe risolto tutti i problemi dell’uomo. Il progressismo è un’altra delle mitologie con cui gli uomini hanno cercato di sfuggire alla vera domanda: chi sono io? Questa domanda non è né progressista né reazionaria, ma esistenziale, e non può essere catalogata con le categorie della modernità come se questa ci avesse portato più avanti o più indietro rispetto a quello che Socrate ci aveva chiesto.

 

Schiavone dice ancora che la Chiesa ha commesso un peccato di speranza: ha intravisto la novità che si palesava all’orizzonte, ma «anziché elaborare le regole di un nuovo patto tra l’umano e il divino», riconciliarsi con la modernità e con la scienza, si è fermata sulla soglia, mancando l’appuntamento con la grande riforma.

 

Questo linguaggio non mi affascina, è scontato. La Chiesa fa il suo mestiere, come istituzione e come popolo. È un popolo di persone che vanno interpellate personalmente. Perché sono io a voler realizzare me stesso, a voler capire quello che mi sta dentro le viscere. Non si può accusare la Chiesa di non darci una speranza concepita secondo le nostre misure. Se uno crede in Cristo, la speranza la trova in Lui: nella sua mediazione vivente, non nelle idee astratte o nei libri.

 

(Federico Ferraù)