Caro direttore,

Sono molto distante per formazione e per professione dai dibattiti interni alla comunità ecclesiastica sul tema pedofilia. Il mio ruolo professionale e la mia modesta esperienza nei tribunali italiani impongono dei distinguo fatti di numeri, di episodi, di carte giudiziali e di perizie. Obiezioni e critiche che possono risultare sgradevoli a chi vede gli aspetti ideologici e quelli religiosi prevalere sulla banale questione giudiziaria, fatta da soggetti in carne ed ossa siano questi delle vittime, dei colpevoli o degli innocenti.



In un calderone nel quale crogiolano autoflagellazione delle gerarchie ecclesiastiche, omertà, revanscismo laico, interessi di parte fortemente condizionati dall’aspetto economico, magistrati autoreferenziali e talvolta giustizialisti, associazionismo privato e periti (vera anima dei processi) tutt’altro che indipendenti, è assai difficile mantenere l’attenzione sui fatti. Gli abusi su minori, siano essi sessuali o non, sono reati repellenti di fronte ai quali è facile cedere all’emotività e ad un astratto bisogno di giustizia. Ancora più difficile quando autori e presunti tali vestono la tonaca e a loro è affidato tra l’altro un compito pedagogico.



Eppure tutti dovrebbero sforzarsi nel dare un quadro realistico del problema, rifuggendo da facili massimalizzazioni che non aiutano in nulla le vere vittime, ma anzi favoriscono omertà e silenzi. Altrettanto dovrebbero fare i mezzi d’informazione. Non è di ausilio veder pubblicata una tabella con nomi di preti pedofili nei quali si mescolano casi di condanne definitive con assoluzioni e casi appena iniziati e fortemente dubbi. Altrettanto poco corretto è mettere sullo stesso piano, come spesso viene fatto scrivendo dei processi americani, irlandesi e tedeschi, casi di maltrattamenti non sessuali, abuso di mezzi di correzione e molestie, con vera e propria pedofilia.



Ciò detto è evidente che non si voglia sminuire la gravità degli atti, ma solo delimitarne i confini per giungere alla soluzione del problema. Piaccia o no la questione è molto concreta e va affrontata fuori da ipocrisie, con la concretezza dei singoli casi. Talvolta ho la sgradevole sensazione che elevando troppo l’argomento, si arrivi ad attribuirne una sorta di causa “demoniaca” esterna all’uomo di fronte alla cui enormità non si può fare altro che chiedere perdono e affidarsi a Dio, prospettiva che appare parente stretta del “tutti colpevoli, nessun colpevole” cara alla morale nostrana.

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Cerchiamo di mettere qualche punto fermo al dibattito. Sullo sfondo si nota un’enorme differenza nella qualità degli indagati e dei condannati negli altri Paesi rispetto al nostro, se non altro perchè all’estero abbiamo avuto vere inchieste, attribuzioni di responsabilità ben definite, prove e confessioni. Fermandoci oltre confine possiamo dire che gli abusi sono quasi sempre stati compiuti all’interno di istituti religiosi, del sistema di assistenza sociale gestito da religiosi, degli orfanotrofi. Nel mondo anglosassone, ancor più che da noi, i preti svolgono un’azione surrogatoria dello Stato attraverso le tutele minorili e occupandosi direttamente dei carceri minorili. Ambienti chiusi, dunque, spesso asfittici, con regole interne talvolta arcaiche. I colpevoli, in queste strutture, hanno di solito un ruolo di potere, molto rari i casi da parrocchia e oratorio, ambienti ben più aperti e quasi nulli quelli addebitabili ai soldatini semplici nell’esercito talare.

 

Sempre restando sul terreno dei fatti e non dei teoremi, dunque occupandoci esclusivamente di ciò che è emerso all’estero, si può dare un senso alla vexata quaestio del rapporto tra pedofilia e omosessualità (sia maschile che femminile). Si può osservare una relazione non tanto con l’omosessualità in sé stessa, ma con la repressione forzata di tendenze omosessuali. La statistica dice che la stragrande maggioranza di abusi in seno alla Chiesa avviene su persone dello stesso sesso. Il colpevole vive la propria condizione sessuale come fonte d’angoscia, incompatibile con il ruolo assunto, una sessualità dolente condizionata dal senso del peccato e dalla contraddizione a tratti schizofrenica con i dettami della Chiesa cattolica. Per paradosso, non volendo infrangere un tabù che comporta l’esclusione dal gruppo di riferimento, il prete si ritrova ad infrangerne uno ben più grave. Dagli interrogatori emerge sempre una visione dell’infanzia come area “angelicata”, un porto franco nel quale l’affettività “purifica” l’atto dalla sua componente omosessuale, spesso vissuta in maniera più contorta della pedofilia stessa. L’abuso sul minore sembra arrivare solo alla fine di un processo disgregativo della personalità.

 

Ritengo che ci siano ampi margini di intervento concreto in senso preventivo. I colpevoli lamentano spesso un senso d’abbandono nell’affrontare queste problematiche dal punto di vista psicologico e la mancanza di un supporto nell’uscita dall’alveo ecclesiastico. Anche questo è uno stimolo di riflessione per le autorità preposte.

 

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Veniamo ai nostri asfittici confini. Chi ha letto il mio ultimo libro Presunto Colpevole. La fobia del sesso e i troppi casi di malagiustizia (ed. Chiarelettere) sa quanta poca fiducia ripongo nel sistema giudiziario italiano. Un ampia casistica, purtroppo, mi dà ragione. Se guardassimo ai numeri espressi dalle nostre indagini potremmo dire che con pochissimi casi, spesso assai dubbi, il problema pedofilia ecclesiastica quasi non esista. Ovviamente non è così.

 

La realtà giudiziaria italiana è fatta da situazioni molto diverse da quelle emerse all’estero. È fatta di preti di parrocchia accusati in maniera ambigua e abbandonati dalla Chiesa. Triturati nei loro diritti ad un giusto processo dalle colpe altrui e difesi nel silenzio generale solo dai parrocchiani e spesso da tutti gli altri minori, peraltro ignorati dai magistrati, che hanno frequentato senza danno le sacrestie e gli oratori. Pochissimi i rei confessi, assenti le alte gerarchie.

 

Se siamo arrivati al punto di dover mandare gli ispettori ministeriali a Milano per valutare le gravi affermazioni del Procuratore Forno (e personalmente suggerirei un controllo anche alla regolarità dei tanti processi nei confronti di padri separati denunciati dalle ex mogli in presenza di fortissima conflittualità pregressa) un motivo ci sarà. Il motivo si chiama presunzione di colpevolezza, che azzera completamente i diritti della difesa con modalità che se fossero attuate per altri reati farebbero gridare allo scandalo.

 

In Italia le inchieste le fanno le televisioni. Per uscire dall’aleatorietà, ottenere una prova, posizionare una telecamera, tessere una trappola informatica, dobbiamo aspettare programmi come Le iene. La magistratura non le fa e non le vuole fare, pena la messa in discussione di un meccanismo inquisitorio basato solo sulla denuncia del singolo e sull’adesione alle teorie psicologiche dell’accusa. Nei tribunali italiani non si parla di fatti, ma di teoremi. Si fa populismo processuale condannando in assenza di prove o con forzature al limite della falsificazione avvelenando il pozzo del diritto e della lotta alla pedofilia, che mai come in questo momento ha bisogno di certezze. Le patologie del sistema giudiziario in questo settore sono tali che si è creato un corto circuito per il quale è tanto probabile che un innocente finisca in galera quanto che un colpevole resti in libertà. Si è generato un enorme circolo vizioso per il quale i giudici rinviano a giudizio e sempre più spesso condannano i pochi soggetti denunciati. Nello stesso tempo, questi sono così scarsi proprio a causa della mancanza di credibilità del sistema giudiziario, che occupandosi sempre più di psicologia, anziché di riscontri oggettivi, scoraggia le denunce stesse.

 

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Di fronte a questo quadro ha poco senso farsi domande di natura criminologica e proporre delle analisi. Forse è meglio ricordare le parole espresse dal Presidente Napolitano il 27 aprile di fronte ad una platea di giovani magistrati: «Deve prevalere in tutto il senso della misura, del rispetto, e infine della comune responsabilità istituzionale», dice il Capo dello Stato, «nella consapevolezza di essere chiamati a prestare un servizio efficiente, e garantire un diritto fondamentale ai cittadini». «Occorre adoperarsi per recuperare l’apprezzamento e il sostegno dei cittadini. E a tal fine la magistratura non può sottrarsi ad una seria riflessione critica su se stessa, ma deve proporsi le necessarie autocorrezioni, rifuggendo da visioni autoreferenziali».

 

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