Ha toni davvero appassionati il Manifesto per Milano pubblicato ieri dal Corriere della Sera e firmato da Giangiacomo Schiavi, Fulvio Scaparro e Marco Vitale. I contenuti sono del tutto condivisibili. Ed è condivisibile quell’invito ad agire che fa leva su quella meravigliosa e milanesissima frase di Ambrogio: «Voi pensate: i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi».  



Questo Manifesto a suo modo è un altro sintomo di quanto sia vitale questa città, capace di suscitare dibattiti a non finire, di coinvolgere tutti nelle discussioni sul suo futuro e sul suo destino. Credo che su nessuna città italiana (ma non solo…) siano usciti tanti libri in questi ultimi anni come su Milano: evidentemente è una città su cui c’è tanto da dire, che offre spunti a ripetizione per giornalisti, scrittori, sociologi, filosofi, poeti… Mi verrebbe quasi da dire che c’è una grande fame di Milano. Ed è un fenomeno inatteso, visto che non si tratta di una città dal grande appeal. Non è Roma, non è Napoli. Non ha lo smalto di Barcellona, né tanto meno la grandeur di Parigi o Londra. È una città che per natura non spicca, sotto la coltre di quel cielo tendenzialmente grigio e tendenzialmente immobile.



E allora perché Milano desta tanto interesse? Giustamente nel Manifesto si risponde dicendo che Milano è nodo delicato, perché da lei dipende il destino dell’Italia, e se non ce la fa Milano non ce la fa l’Italia. Mi permetto di aggiungere un’altra spiegazione: Milano desta interesse perché è una città piena di energia. Una città magari disordinata, magari poco inquadrabile, magari a tratti insopportabilmente trascurata (il caso della Darsena parla da solo), ma è una città che ogni mattina si scuote di dosso questa zavorra e si mette a correre. 

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Io ho un debole per questa Milano che corre, per la sua capacità di iniziativa, di inventare cose, imprese, idee. Ho un debole per questa città arcipelago, che certamente soffre di una mancanza di regia e di zone di opacità, ma che non ne fa un alibi per stare ad aspettare. Penso alla Milano che, dal punto di vista del mondo che conosco meglio, quello del non profit, ha delle esperienze di eccellenza straordinaria, nate per lo più dalla genialità umana di singoli a cui il contesto non ha fatto problema: penso alla Don Gnocchi, a Vidas, al Banco Alimentare, a Emergency, all’Opera San Francesco.

 

Penso alla Milano con gli ospedali che funzionano come in nessuna altra città italiana; ai centri di ricerca, spesso finanziati dall’iniziativa dei privati. Ma penso anche alla Milano creativa che, ad esempio, ogni anno genera un evento diffuso di cui non mi pare che ci sia un uguale al mondo: il fuori Salone (del Mobile). O che proprio oggi festeggia l’apertura in semiperiferia di una delle più belle e grandi gallerie d’arte italiane (quella di Lia Rumma, napoletana… ). Penso alla Milano che in pochi anni ha visto crescere al 20 per cento la popolazione straniera, che per quanto dica la Moratti, è integrata e in gran parte è contenta di potersi “milanesizzare”. Vi assicuro che potrei andare avanti per un bel po’ di pagine a elencare queste cose della Milano che corre. Potrei parlare anche del calcio: saper vincere con due squadre è una pur una bella cosa…

 

Ma mi fermo. Perché la ragione di queste righe è una sola: penso che Milano debba essere raccontata ed esplorata nelle sue infinite dinamiche positive. Perché così la si rafforza. La coscienza diffusa e positiva di chi si è e di cosa si fa, è la miglior arma per vincere i mali che certamente ci attanagliano.