Mentre a Cannes si apre il caso di Draquila, il film di Sabina Guzzanti, vi proponiamo l’intervista a Roberto Grillo, 48 anni, fotografo aquilano che di quei momenti ha catturato le primissime immagini. Senza filtri di ideologia di ogni colore

“Siamo certi che sei già in giro a fotografare. Fallo per noi e per la nostra memoria”. Gli amici di Roberto Grillo avevano ragione: alle 6.00 di quel tragico 6 aprile, quando gli inviarono quell’sms, il fotografo aquilano era in giro con le sue reflex già da tre ore. Stava facendo quello che fa da trent’anni: mette la sua testa e il suo cuore dietro un mirino, e scatta, e racconta la realtà con le immagini.



La terribile scossa delle 3.32 non lo ha colto impreparato: a casa aveva pronta una macchina fotografica, che ha utilizzato addirittura per illuminare con il flash la camera in cui si trovava, dato che non si vedeva niente. E altre due macchine le teneva nello studio: aveva deciso di tenerle separate, in modo da non rimanere sprovvisto in caso di necessità. “Me lo sentivo…”.



Comincia da qui il racconto di Roberto Grillo, 48 anni, fotografo aquilano, autore di alcune degli scatti sul terremoto che hanno fatto il giro del mondo: sono sue, infatti, le foto di apertura del New York Times e del Times nei giorni successivi al sisma, e anche del Washington Post.

E portano la sua firma immagini apparse nei giorni seguenti sul Corriere della Sera e il Sole 24 Ore. Insieme a colleghi ed amici, ha dato vita ad un’associazione, Lo spazio del ricordo, che ha come scopo quello di “ricordare e mantenere viva l’identità culturale, cittadina e urbanistica di una intera popolazione che viveva le proprie passioni quotidiane nei vicoli del centro”, associazione che ben presto ha incontrato persone impegnate nel progetto Ri.Cre.A. di Cdo Abruzzo Molise, con le quali ha cominciato a condividere idee e progetti, ed altri amici come la fotografa pubblicitaria Marianna Santoni.



Tra questi, c’è quello di una mostra che racconti L’Aquila com’era, com’è e, forse, come sarà, perché il ricordo accenda la speranza e proietti lo sguardo verso il futuro, mostra che darebbe seguito ad un’altra già realizzata e in circolazione. La decisione di mettere su pannello immagine evocative, magari accanto a foto storiche o d’archivio, è maturata nel tempo, mano a mano che sotto gli occhi di Roberto scorreva prima il dramma, poi l’emergenza, poi i primi segni di una rinascita. Il tutto, però, condito da quello che egli stesso chiama rabbia e dolore, sentimenti duri a morire.

“La notte del 6 aprile – racconta – ero pronto, perché sapevo che prima o poi sarebbe successo”.

Lo presentivi?

 

“Sì. Insieme a mia moglie sono stato in Irpinia come volontario. All’epoca avevo acquistato la mia prima macchina fotografica da solo un mese e, per questo, non la portai con me perché non la sapevo utilizzare bene. Negli anni successivi, ho ripensato a lungo a che cosa avrei fotografato lì in Irpinia. È come se avessi fotografato “con la mente” quegli avvenimenti che, poi, ho scoperto essere molto uguali a quelli di oggi: cambiano le targhe delle macchine, i vestiti delle persone nemmeno più di tanto, ma la distruzione, lo sgomento, il dolore, sono identici. Identici. Così, nel tempo ho maturato come un sesto senso: prima o poi mi sarebbe toccato fotografare proprio la mia città in una situazione analoga”.

 

E, purtroppo, tanto è stato: “Purtroppo sì. Ero già pronto per questa ragione ma anche perché le scosse si susseguivano da tempo”.

 

Cosa hai fatto alle 3.32?

 

“In primissimo luogo ho messo al sicuro mia moglie e miei figli: fortunatamente la mia abitazione non aveva subito danni gravissimi. Poi ho verificato come stavano i miei genitori, che vivono sopra di me, e i miei suoceri: grazie a Dio, stavano tutti bene. Subito dopo mi sono messo sulla mia vespa, e ho iniziato a fotografare. La prima foto l’ho fatta alle 3.50”.

 

Va detto che Roberto non è un fotoreporter: “Anche se i miei primi lavori erano per testate giornalistiche locali, nel tempo sono diventato fotografo di matrimoni. In particolare, mi sono specializzato nel bianco e nero”.

 

Ma le tue foto del sisma sono a colori…

 

“Sì, è stata una scelta che ho fato subito, pensando che le mie foto potessero essere utili ai media. E infatti, così è stato: miei scatti, che fornivo all’Ansa, hanno fatto il giro del mondo, anche inaspettatamente. Con i fotografi dell’Ansa, ho anche vinto un premio internazionale di fotogiornalismo per i servizi fotografici sul sisma dell’Aquila. Oggi non ho più interessa più tutto questo, complice un atteggiamento della stampa divenuto sclerotizzato, che ha spostato l’interesse su logiche che esulano da quelle reali dell’Aquila. Oggi ho a cuore solo raccontare a modo mio ciò che è successo, ed è per questo che mi sto concentrando sulla mostra”.

 

Su che cosa ti sei concentrato nel tuo lavoro di fotografo nei primissimi attimi del sisma e nei giorni successivi?

 

 

“Inizialmente ho scattato, come si suol dire, a raffica: un po’ tutto quello che mi passava sotto gli occhi. Poi lentamente ho iniziato a razionalizzare, cercando situazioni dove emergesse l’intimità delle persone, senza per questo violentare chi stava vivendo un dramma. Come nel caso delle foto al convitto nazionale, dove ho ritratto l’ansia di due genitori alla ricerca dei loro figli: uno dei due ragazzi, purtroppo, non ce l’ha fatta. Certo, c’è chi non ha avuto pudore, in particolare i fotografi non aquilani, che spesso e volentieri hanno “profanato” la città, superando abbondantemente ogni limite. Io no. Quella gente era la mia. E come me la pensano così anche Danilo Balducci, Marco D’Antonio e Renato Vitturini, tre colleghi-amici con i quali ho condiviso, e continuo a condividere, tantissimo, anche in termini professionali”.

 

C’è qualcosa che volutamente non hai fotografato?

 

“Ho deciso sin da subito di non ritrarre i morti e le persone sotto le macerie, proprio per quel senso di pudore e di pietà di cui parlavo prima. Ci sono anche foto che ho deciso di tenere per me, e di non dare in pasto alle agenzie”. Avrai sicuramente visto tante foto dei tuoi colleghi: che idea te ne sei fatto? “Ho visto scatti buoni, altri eccellenti, ma a volte mi sono imbattuto in fotografie palesemente ritoccate con filtri di Photoshop che, per questo, hanno raccontato una città irreale”.

 

Tra quelle che pubblichiamo su questo sito, ce n’è una in particolare alla quale sei legato, che riassume il dramma?

 

“Sì, quella in cui si vedono tre persone mosse, come mosso è lo sfondo. Racconta l’agitazione, lo sgomento di quello che stava succedendo. Probabilmente c’è anche una certa dose di causalità in quella foto, ma non per questo si può dire che non sia evocativa”.

 

E adesso è giunto il momento di una grande mostra.

 

“Sì, ci sto lavorando da un po’. Sarà articolata in quattro sezioni: L’Aquila storica, attraverso alcune cartoline d’epoca, L’Aquila così come l’ho ritratta in trent’anni di lavoro, L’Aquila dopo il terremoto e L’Aquila come sarà. Per quest’ultima sezione sto collaborando con alcuni amici architetti, per provare a immaginare il futuro della mia città. Io amo L’Aquila, amo la mia gente, amo la loro storia, la loro dignità, i loro desideri: da un anno, non faccio altro che concentrarmi su questo, anche fotograficamente”.

 

Roberto, è cambiato il tuo modo di fotografare?

 

“Da un punto di vista professionale, va detto che nel 2009 ho avuto solamente tre disdette di matrimoni, il che è assolutamente accettabile. Non ho abbandonato, dunque, il mio mestiere, anzi: quando il 23 aprile dell’anno scorso ho lavorato per un matrimonio in un ristorante sulla costa, è stato come tornare a respirare. Da un punto di vista tecnico, prima del sisma ero un fotografo antico e un vecchio stampatore in bianco e nero, con un occhio al digitale. Oggi mi sto interrogando su come il digitale possa essere funzionale alla mia voglia di raccontare la rabbia e il dolore che mi porto dentro”.

 

(Piergiorgio Greco)