Fare un figlio: e poi, al lavoro subito, il prima possibile, anche prima che trascorrano i tre mesi di astensione obbligatoria previsti dalla legge. A fare questa scelta sono state negli ultimi tempi due tra le donne più in vista del nostro paese, una presentatrice televisiva come Ilaria d’Amico e un ministro come Maria Stella Gelmini: ricalcando la scelta che già fu di Rachida Dati in Francia, e motivandola con la necessità di lavorare e di “fare sacrifici”.



Una scelta preclusa, come entrambe hanno sottolineato nelle interviste rilasciate al Corriere della Sera, alle donne “normali”: ma mentre la D’Amico riconosce di essere stata “privilegiata” a poter lavorare da casa e con una nursery in redazione, al contrario il “privilegio”, secondo la Gelmini, è quello delle donne che restano a casa per mesi – fossero anche quelli che spettano loro per diritto.



Escluse da un privilegio o privilegiate? Una cosa è certa: le madri lavoratrici italiane non hanno vita facile, e non perché “costrette” a restare a casa dopo il parto. La legge che attualmente disciplina la loro sorte – la 53 del 2000 – segue le tracce di una precedente legge, la 1240 del 1971, primo frutto delle rivendicazioni femminili in tema di maternità: in particolare per quanto riguarda il riposo in gravidanza – nei due mesi finali – e dopo il parto – nei tre mesi iniziali.

Un riposo fino ad allora affatto garantito: sancirlo in sede legislativa significò una conquista a lungo agognata, per generazioni di donne a vivere sulla propria pelle le contemporanee fatiche della procreazione e del lavoro (spesso non di concetto), senza sconti e senza riconoscimento alcuno.



All’inizio di questo millennio, la revisione della legge si proponeva tra l’altro di approfondire questa tutela: oltre a condividerla in maniera più piena tra i due coniugi, e a renderla più flessibile (consentendo di spostare uno dei mesi di astensione obbligatoria da prima a dopo la nascita del bambino, e riconoscendone quindi la maggiore necessità in questa fase), ne confermava l’esigenza e l’indiscutibilità.

All’indomani del congedo obbligatorio, per la madre lavoratrice si aprono oggi due strade: quella del rientro al lavoro, ovvero quello del prolungamento dell’astensione per sei ulteriori mesi (retribuiti al 30%, se fruiti entro il terzo anno di vita del bambino; non retribuiti, se fruiti entro gli otto anni). Secondo l’ultima rilevazione Istat [], presentata da Sabrina Prati lo scorso sabato alla manifestazione “Sui Generis” di Mantova, ad avvalersi di questa facoltà dopo 18-21 mesi dal parto sono state una larga maggioranza, pari al 74,4% delle donne (più al nord – oltre l’80% – che al sud – poco più del 60%).

[1] Cfr. S. Prati, “Essere madri in Italia – anno 2005”, seconda Indagine Campionaria sulle nascite, Roma, Istat, 17 gennaio 2007, p.p. 8-9.

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Segno di un bisogno primario, consistente, e non riducibile a un capriccio personale o alla scarsa disponibilità a sacrificarsi: il sacrificio c’è, è anzi ben presente, ma coincide semmai proprio con l’interruzione di quello che dovrebbe essere un periodo di dedizione esclusiva al bene comune di madre e bambino. Difatti, analizzando nel dettaglio il profilo delle lavoratrici in base al momento del loro ritorno al lavoro, l’Istat evidenzia [] che la tendenza ad anticipare il rientro al lavoro è tipica del Meridione (il 20% delle donne del Sud torna dopo 3 mesi, contro il 10% del Nord; tra i 3 e i 6 mesi del bambino rientra un altro 44% di donne al Sud, mentre solo il 23% lo fa al Nord): interrogate al loro rientro, almeno una metà delle madri dichiara che avrebbe preferito restare ancora per un po’ con i figli, e di essere tornate al lavoro prevalentemente per esigenze economiche.

 

A esprimere il desiderio di restare a casa più a lungo sono in maggioranza proprio le madri lavoratrici del Meridione, che vivono evidentemente la loro come una scelta condizionata da queste esigenze. Significativamente, le donne che hanno prolungato la loro permanenza in congedo lo hanno fatto almeno per un 10% utilizzando strumenti differenti dall’astensione: come le ferie, che a differenza dell’astensione facoltativa prevedono la retribuzione piena.

 

Il problema delle donne italiane, dunque, non sembra a oggi essere in prevalenza, o soltanto, quello di soddisfare l’impellente desiderio di rientrare immediatamente al lavoro, quanto quello di far convivere il desiderio di restare accanto ai figli, condividendo con loro almeno i primi, preziosi mesi di vita, con le aspirazioni professionali, le necessità economiche e i ritmi lavorativi.

 

Eloquenti sono a questo proposito i dati relativi al fenomeno dell’uscita dal mercato del lavoro delle neomamme: il 18,4% delle donne – una su cinque – alla data dell’intervista non lavora più, sia perché è stata licenziata (nel 5,6% dei casi), sia perché ha lasciato il lavoro volontariamente (nel 12,4% dei casi), adducendo a motivo l’inconciliabilità degli orari lavorativi con il nuovo assetto familiare, o per potersi dedicare completamente alla famiglia.

 

Numeri ancora più significativi, se si considera che, delle “sopravvissute”, il 40,2% dichiara difficoltà nel conciliare famiglia e lavoro. In cima alla lista, di nuovo, è la rigidità dell’orario (con l’impossibilità di fruire di entrate o uscite elastiche), insieme allo svolgimento di turni serali o nel fine settimana. A dichiarare le maggiori difficoltà sono le madri con un livello di istruzione più elevata e che lavorano full-time: dunque, in apparenza, proprio quelle che sono tornate al lavoro più volentieri (non per motivi economici, ma perché “il lavoro richiedeva la loro presenza”) e con maggiore soddisfazione, trovandosi però poi a fronteggiare l’urto con l’odierna realtà lavorativa, rigida e inconsapevole delle loro mutate priorità.

 

[2] Cfr. S. Prati, M. Lo Conte, V. Talucci, “Le strategie di conciliazione e le reti formali e informali di sostegno alle famiglie con figli piccoli”, Seminario Cnel-Istat, Roma, 2 dicembre 2003., pp. 2-4.

 

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A tentare di porre rimedio a questa rigidità è stata, di nuovo, la legge 53 del 2000, che all’articolo 9 prevedeva un sostegno finanziario in favore di progetti aziendali che incentivino la flessibilità lavorativa – come il part-time, il telelavoro, gli orari flessibili, la banca delle ore, che i dati Istat dimostrano avere un’incidenza positiva sulla conciliazione.

 

Lodevole nelle intenzioni, l’articolo ha però incontrato nel corso della sua breve esistenza notevoli difficoltà pratiche: non tanto per via della ristrettezza della somma – originariamente soli 40 miliardi di lire annui – messa a disposizione dei progetti, quanto per la macchinosità dei procedimenti per accedere ai finanziamenti, che ha fatto sì che i già limitati fondi venissero utilizzati solo in minima parte.

 

In pratica, la complessità burocratica, unita a quella organizzativa e insieme alla mancanza di un forte incentivo culturale, non solo economico, hanno fatto sì che, nei dieci anni intercorsi, le aziende italiane non utilizzassero realmente appieno l’unico strumento di flessibilità disponibile, limitandosi a iniziative isolate a beneficio dell’immagine pubblica, più che del reale benessere dei lavoratori.

 

Dulcis in fundo, nel tentativo di migliorare una norma che dal dipartimento della Famiglia non esitano tuttora a definire “sperimentale”, lo scorso anno la legge 69 del 18 giugno 2009 ha rimesso mano all’articolo, ampliandone il fronte di intervento e demandando al governo l’individuazione della quota da destinare al finanziamento: ma il percorso di questo nuovo provvedimento, dipendente da decreti attuativi interministeriali, è stato sinora intralciato dall’attesa delle approvazioni di vari enti coinvolti, tra i quali la Conferenza Stato-Regioni.

 

Il risultato è che per quasi un anno i finanziamenti per la flessibilità, già di difficoltosa gestione, sono rimasti in stallo: con buona pace dei tanti genitori lavoratori in attesa di misure di conciliazione. La situazione è stata sbloccata solo lo scorso 29 aprile: nella medesima manifestazione di Mantova già menzionata, il capo dipartimento delle Politiche della Famiglia, Roberto Marino, non escludeva il varo della misura prima dell’estate.

 

Le madri lavoratrici italiane, insomma, non potrebbero seguire l’esempio della D’Amico e della Gelmini, nemmeno se lo volessero: prima dei tre mesi del bambino, lo impedisce la legge. Attualmente, peraltro, è la loro stessa volontà ad escluderlo: la volontà di donne sempre più consapevoli, sempre meno disposte a rinunciare non solo alla procreazione, ma alla maternità, intesa come allevamento e vicinanza fisica ed emotiva ai loro bambini, delle cui vite non si accontentano più di essere semplici spettatrici.

 

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Ma quando, rientrando al lavoro, queste donne provano a loro volta a tenere tutto insieme, chiedendo per sé la stessa elasticità di cui possono disporre presentatrici e ministre – lavorando da casa, tenendosi i loro bambini accanto, abbandonando le timbrature fisse, reclamando per sé e la propria famiglia una porzione aggiuntiva di tempo e energie -, si trovano di fronte un muro, anzi, una sequela di muri: quello dell’opacità legislativa, quello dell’indisponibilità aziendale, quello della complessità burocratica.

 

Se dunque, quale che ne siano le ragioni, l’intenzione è quella di rimettere in discussione i confini che oggi separano dimensione familiare e professionale, si potrebbe cominciare, prima che dalla negazione dell’astensione obbligatoria, dall’abbattimento di questi muri, che oggi tengono le donne, reduci dalla segregazione patriarcale, rinchiuse nei novelli recinti della segregazione impiegatizia.

 

Prima di pensare di separare la madre dal figlio in fasce, come accadrebbe alla maggioranza delle lavoratrici se si abolisse il congedo parentale, si potrebbe intervenire nel quadro attuale, incoraggiando l’attuazione di tutte le misure che consentirebbero di non contrapporre impegno sul lavoro e vicinanza al bambino.

 

Ben venga la riconquista di un’unità di vita perduta, magari anche e proprio nel nome del valore del lavoro, importante da coltivare e da trasmettere ai figli: ma è importante che questo non avvenga a discapito di un altro valore, quello della famiglia, che, se si cancellassero le tutele obbligatorie, alle attuali condizioni di rigidità del quadro normativo e dell’organizzazione aziendale verrebbe semplicemente espunto dalla gerarchia e demandato alla delega esterna.

 

Se libertà deve essere, insomma, che libertà sia: però non solo quella di rientrare al lavoro a poche ore dal parto, ma anche e soprattutto quella di continuare a essere presente accanto ai figli, anche a più mesi di distanza, riconoscendo alle madri che lo vogliano – e sono in tante – il sacrosanto diritto di fare le madri, e non solo le lavoratrici.