La sentenza di condanna all’ergastolo emessa contro El KAtawi Dafani, il padre omicida della povera Sanaa Dafani, rappresenta una pietra miliare che va a costituire un precedente importantissimo per l’ordinamento giuridico italiano.

Le vicende legate alla triste fine della ragazza, che oggi è ormai cronaca raccontata da tutta la stampa locale e nazionale, dopo l’ondata di indignazione suscitata non solo nell’opinione pubblica italiana, ma anche fra tutti i musulmani moderati che combattono giornalmente per affermare un Islam moderno, riformista, moderato, al riparo dalle velenose e subdole spire dell’estremismo, hanno risvolti giuridici essenziali.



Il collegio di difesa del padre-orco aveva chiesto, durante l’udienza dello scorso 14 giugno, che venissero riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, l’attenuante culturale, l’attenuante della riduzione del rito e il minimo della pena in base ai presupposti che l’uomo non aveva mai picchiato la figlia, ma che l’aveva cresciuta con amore. Il giudice Patrizia Botteri non le ha fortunatamente concesse.



Come è stato dimostrato nella fase istruttoria del processo, l’omicida ha agito con premeditazione infliggendo alla vittima sevizie e crudeltà punibili secondo l’aggravante 61 numero 4 del codice penale che, assieme all’aggravante della premeditazione, sono state punite con l’ergastolo, la cui sentenza è scaturita dalla condanna ai 30 anni più il cumulo con l’isolamento diurno.

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Premesso che in Italia il delitto d’onore è stato abolito da tempo, un crimine tanto efferato in cui un padre uccide una figlia, credendo di poter assurdamente lavare un’onta inesistente col sangue di un’innocente, doveva essere sanzionato con una pena esemplare. L’omicidio di Sanaa non è stato soltanto quello di un genitore contro la propria stessa prole, ma un attentato contro l’integrazione e contro le stesse istituzioni democratiche dello Stato.

 

E’ stato un delitto dove ad essere uccisa è stata tutta quella parte delle seconde generazioni che si è saputa e voluta integrare e che ha fatto della propria diversità un valore. Non una prigione, non una condizione paradossalmente e superbamente elitaria. E’ stato il crimine commesso in nome dell’appartenenza a un ghetto comunitario incapace di guardare all’altro da sé, inamovibile, asserragliato. E’ stato un omicidio che ha fatto della propria diversità culturale un vessillo identitario che servisse da monito a tutta la comunità di Pordenone.

 

Ed infatti l’aula del tribunale era vuota: non una donna o un uomo marocchino a sostenere la memoria di Sanaa, per il terrore delle ripercussioni. Non una di quelle tante femministe coraggiose a parole ma non nei fatti, prone a quell’ideologia multiculturale lassista che ha prodotto disastri.

 

Il precedente che il giudice Botteri ha sancito al processo è quello secondo il quale l’ordinamento giuridico italiano garantisce il diritto alla libertà di scelta, di pensiero, alla parità tra uomo e donna, all’uguaglianza. Omicidi come quello della povera Sanaa sono contrari al nostro ordinamento e sono figli di una concezione distorta del diritto che non può e non deve essere lasciata filtrare in Italia come invece accaduto in Germania a causa di una magistratura complice e timorosa.

 

 

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Per questo ritengo che sia giunto il momento di fare in modo, come ho proposto recentemente, che non sia possibile riconoscere attenuanti di tipo culturale, etnico o religioso, che minano il concetto stesso di diritto positivo maturato dopo anni di battaglie per la conquista dei diritti inalienabili dell’essere umano codificati nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, universale perché corrispondente all’universo mondo!

Dobbiamo invece lavorare affinché nel nostro ordinamento venga introdotta la fattispecie di aggravante culturale in base alla quale, se un delitto venga commesso in nome dell’obbedienza a tradizioni, usanze e regole inaccettabili, esso non solo debba essere in un certo qual modo compreso, ma la pena prevista debba essere appesantita nel rispetto dell’universalità sancita a New York nel 1948!

Non siamo più disposti a permettere che forme di segregazione, di violenza, di sopruso, possano essere fatte prevalere sulla sacralità della vita. Dobbiamo spalancare quelle porte che per troppo tempo sono rimaste serrate, per risvegliare le menti di chi è ancora accecato dalla paura, dall’indifferenza o annichilito da un pensiero tanto relativista da garantire il perpetuarsi di questi massacri. Per far capire all’opinione pubblica che queste storie che sembrano accadute in un passato remoto, sospeso quasi in una dimensione senza tempo, in Paesi lontanissimi, si sono verificate nell’Italia di oggi.

 

Siamo state, siamo e continueremo ad essere tutte Sanaa, finché l’ultimo di questi crimini contro i figli e le figlie dell’Uomo non restino solo un ricordo sbiadito.