Era in partenza per Cipro, Mons. Luigi Padovese, dove avrebbe incontrato il Papa. Stava probabilmente lasciando la città di cui è vescovo, Iskenderun, in Anatolia, ma il gesto folle e assassino del suo collaboratore e autista, che accusava disturbi psichici, ha messo fine alla sua vita.
Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia e presidente della Conferenza episcopale turca, è stato accoltellato ieri nella sua abitazione. Un crimine che ha subito fatto pensare ad un omicidio politico, o a sfondo religioso, facendo tristemente riandare la memoria di tutti al caso di don Andrea Santoro, ucciso il 5 febbraio 2006 per mano di un fondamentalista. Ma non è così, dice il nunzio apostolico, Mons. Antonio Lucibello, raggiunto al telefono dal sussidiario. «L’aspetto religioso è assolutamente estraneo al fatto, e ci tengo a sottolinearlo» – dice l’alto prelato. Versione confermata dalle dichiarazioni rilasciate in serata da Padre Lombardi, capo ufficio stampa della Santa sede.
Monsignor Padovese era nato a Milano nel 1947. Ordinato sacerdote nel 1973, religioso cappuccino, aveva insegnato Patristica alla Pontificia Università dell’Antonianum di Roma, poi alla Gregoriana e all’Accademia Alfonsiana. Visitatore del Collegio Orientale di Roma per la Congregazione delle Chiese Orientali, era stato infine nominato vicario apostolico dell’Anatolia e vescovo titolare di Monteverde l’11 ottobre 2004 e infine consacrato a Iskenderun il 7 novembre. Aveva celebrato, nel 2006, i funerali di don Andrea Santoro. L’anno scorso ilsussidiario.net lo aveva intervistato, durante la sua visita ad limina a Roma. «Alla Chiesa universale – era stato il suo appello – chiediamo per il nostro bene di tenere gli occhi puntati sulla nostra realtà».
Eccellenza, non si conoscono ancora i moventi che hanno portato all’uccisione di Mons. Padovese. Potrebbe trattarsi di fanatismo anticristiano o di persecuzione?
No, lo nego assolutamente. L’aspetto religioso è assolutamente estraneo al fatto. Capisco che da parte vostra sia l’interpretazione più immediata e facile, e anche la più sensazionale, ma io lo sto ripetendo a tutti quelli che in queste ore mi stanno chiamando, e ci tengo a sottolinearlo: non c’è nessuna relazione tra il fatto Santoro (l’uccisione di don Andrea Santoro, il 5 febbraio 2006 nella chiesa di Trebisonda sul Mar Nero, ndr) e il fatto Padovese.
Qual è il suo ricordo personale di Mons. Padovese?
Clicca >> qui sotto per continuare l’intervista
Luigi Padovese aveva fatto della Turchia una sua scelta ideale, oltre che la sua prima terra di missione. Era il coronamento dell’interesse che aveva sempre dimostrato per questa terra che può essere senz’altro considerata come la Terra santa della Chiesa. Qui tutto parla delle antiche comunità cristiane. Poi era diventato vescovo e quindi membro della Conferenza episcopale turca, della quale era diventato presidente. Non posso non ricordare la sua volontà e il suo impegno culturale per tener viva la memoria dei santi che hanno fatto grande la prima cristianità.
In particolare, eccellenza?
Lui e altri suoi collaboratori, con l’aiuto dell’Istituto di Spiritualità dell’Antonianum di Roma, ogni anno organizzavano dei simposi a soggetto, e ne avevano in programma uno per il mese di giugno che si sarebbe dovuto concludere ad Antiochia per la solennità di San Pietro. Mi rimane il ricordo di un impegno veramente ideale e fattivo per questa terra dove la Chiesa si è sviluppata, prima di arrivare in occidente.
Quando lo ha visto l’ultima volta?
Circa un mese fa, in aprile. Era passato di qui per alcune questioni e mi trattenni a pranzo con i suoi collaboratori. Adesso era in procinto di andare a Cipro, anzi ero quasi sicuro che fosse già là, per incontrarsi domani con il Santo Padre.
A Cipro avrebbe ricevuto, dalle mani del Papa, l’instrumentum laboris in vista del Sinodo in Medio oriente.
Sì, è un’espressione della sollecitudine per tutte le chiese tipica del ministero apostolico, e che il Papa esercita in questa particolare circostanza in preparazione del Sinodo di ottobre.
Cosa vuol dire per voi pastori essere alla guida di una comunità cattolica in Turchia?
Clicca >> qui sotto per continuare l’intervista
Ha lo stesso senso che deve avere per ogni pastore che vive in qualsiasi altro posto nel mondo. Se una particolarità ci può essere, è quella che viviamo più degli altri cristiani questa situazione di diaspora, e per di più consapevoli di essere netta minoranza.
Le leggo quello che disse Mons. Padovese a ilsussidiario.net un anno e mezzo fa: «nelle grandi città come Istanbul, Smirne, Mersin, Antiochia… – ad eccezione di alcuni atti di violenza e intimidazione che si sono verificati negli anni passati – i rapporti con il mondo musulmano sono buoni. La situazione (della chiesa e dei cristiani, ndr) della Turchia non è legata tanto alla presenza dell’Islam, cui appartiene più del 99% della popolazione, quanto piuttosto a una sorta di nazionalismo che vede il cristianesimo come un fenomeno estraneo alla cultura turca». Come va affrontata questa sfida?
Con lo stesso spirito che ha segnato la Chiesa dei primi secoli di fronte al paganesimo. Penso che qui, ma allo stesso modo anche nell’Europa che noi conosciamo, con le sue profonde radici cristiane oggi in crisi, bisogna fare nostro lo stile, la sensibilità e l’approccio che aveva san Paolo con i gruppi e le comunità dell’epoca.
Perché questo metodo è buono ancora oggi?
Perché il moderno è sempre radicato nell’antico. La cosa che possiamo fare è dare innanzitutto la nostra testimonianza, con semplicità. Questo vuol dire che prima ancora di fare, bisogna essere. Qualche anno fa la piccola comunità cattolica in Turchia ha fatto un convegno ecclesiale il cui titolo dice tutto: “Dalla presenza alla testimonianza”. Presenza significa che i numeri e le statistiche si fanno piccoli, ma che quel che più conta, la testimonianza, rimane e grazie a Dio diventa più forte.
(Federico Ferraù)