Non dimenticherò mai il contraccolpo avuto durante il ritiro spirituale con alcuni sacerdoti in America latina. Avevo appena terminato di dire che spesso alla nostra fede manca l’umano, che un sacerdote mi avvicinò. Mi disse che all’epoca in cui era in seminario gli avevano insegnato che era meglio nascondere la sua umanità concreta, non averla davanti agli occhi «perché disturbava il cammino della fede».



Questo episodio mi ha reso più consapevole di come può essere ridotto il cristianesimo e dello stato di confusione in cui siamo chiamati a vivere la nostra vocazione sacerdotale. Una volta domandarono a don Giussani che cosa avrebbe raccomandato a un giovane prete: «Che sia innanzitutto un uomo», rispose, suscitando la reazione stupefatta dei presenti.



Ci troviamo agli antipodi dell’indicazione data al seminarista: da una parte, il distogliere gli occhi dalla propria umanità, dall’altra, uno sguardo pieno di simpatia per se stessi. Che cosa risulta dunque decisivo per la nostra fede e la nostra vocazione? Di che cosa abbiamo bisogno?

Don Giussani ha più volte indicato nella «trascuratezza dell’io», nell’assenza di un autentico interesse per la propria persona, «il supremo ostacolo al nostro cammino umano» (Alla ricerca del volto umano, Rizzoli, Milano 1995, p. 9). Invece è il vero amore a se stessi, la vera affezione a sé quella che ci porta a riscoprire le nostre esigenze costitutive, i nostri bisogni originali nella loro nudità e vastità, così da riconoscerci rapporto col Mistero, domanda di infinito, attesa strutturale.



Solo un uomo così «ferito» dal reale, così seriamente impegnato con la propria umanità può aprirsi totalmente all’incontro con il Signore. «Cristo infatti – afferma don Giussani – si pone come risposta a ciò che sono “io” e solo una presa di coscienza attenta e anche tenera e appassionata di me stesso mi può spalancare e disporre a riconoscere, ad ammirare, a ringraziare, a vivere Cristo. Senza questa coscienza anche quello di Gesù Cristo diviene un puro nome» (All’origine della pretesa cristiana, Rizzoli, Milano 2001, p. 3).

«Non c’è risposta più assurda di quella a una domanda che non si pone», ha scritto Reinhold Niebuhr. Può valere anche per noi quando acriticamente subiamo l’influsso della cultura in cui siamo immersi, che sembra favorire la riduzione dell’uomo ai suoi antecedenti biologici, psicologici e sociologici. Ma se l’uomo è davvero ridotto a questo, quale è allora il nostro compito di sacerdoti? A che cosa serviamo? Quale è il senso della nostra vocazione? Come resistere a una fuga dal reale rifugiandoci nello spiritualismo, nel formalismo, cercando alternative che rendano sopportabile la vita? Oppure non sarebbe meglio, obbedendo al clima culturale, diventare assistente sociale, psicologo, operatore culturale o politico?

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Come ha ricordato Benedetto XVI a Lisbona, «spesso ci preoccupiamo affannosamente delle conseguenze sociali, culturali e politiche della fede, dando per scontato che questa fede ci sia, ciò che purtroppo è sempre meno realista. Si è messa una fiducia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e funzioni; ma cosa accadrà se il sale diventa insipido?» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).
 

 

Tutto dipende dunque dalla percezione, innanzitutto per noi, di che cosa sia l’uomo e di che cosa corrisponda realmente al suo desiderio infinito. La decisione con cui viviamo la nostra vocazione deriva perciò dalla decisione con cui viviamo il nostro essere uomini. Solo dentro una vibrazione umana autentica possiamo conoscere Cristo e lasciarci affascinare da Lui, fino a darGli la vita per farLo incontrare agli altri.

 

«Come mai la fede ha ancora in assoluto una sua possibilità di successo?», si chiedeva pochi anni fa l’allora cardinale Ratzinger e rispondeva: «Dirci perché essa trova corrispondenza nella natura dell’uomo. (…) Nell’uomo vi è una inestinguibile aspirazione nostalgica verso l’infinito. Nessuna delle risposte che si sono cercate è sufficiente; solo il Dio che si è reso finito, per lacerare la nostra finitezza e condurla nell’ampiezza della sua infinità, è in grado di venire incontro alle domande del nostro essere. Perciò anche oggi la fede cristiana tornerà a trovare l’uomo» (Fede, Verità, Tolleranza, Cantagalli, Siena 2003, pp. 142-143).

Questa certezza che Benedetto XVI testimonia di continuo anche davanti a tutto il male che ci procuriamo o che causiamo agli altri – pensiamo alla vicenda della pedofilia – ci invita a un cammino per la riscoperta e l’approfondirsi della ragionevolezza della fede: «La nostra fede ha fondamenta, ma c’è bisogno che questa fede diventi vita in ognuno di noi (…): soltanto Cristo può soddisfare pienamente i profondi aneliti di ogni cuore umano e dare risposte ai suoi interrogativi più inquietanti circa la sofferenza, l’ingiustizia e il male, sulla morte e la vita nell’Aldilà» (Omelia della Santa Messa al Terreiro do Paço di Lisboa, 11 maggio 2010).

 

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Solo se sperimentiamo la verità di Cristo nella nostra vita, avremo il coraggio di comunicarla e l’audacia di sfidare il cuore delle persone che incontriamo. Così il sacerdozio continuerà a essere un’avventura per ciascuno dì noi e quindi l’occasione per testimoniare ai fratelli uomini la risposta che solo Cristo è al «misterio dell’esser nostro» (G. Leopardi).

 

(Tratto da L’Osservatore Romano del 9 giugno 2010)