Oggi Repubblica non è in edicola: la scelta, come recitava l’editoriale di ieri, è quella di «scioperare per difendere la libertà di informare». Il sussidiario ha parlato con Massimo Giannini, vicedirettore del quotidiano simbolo dell’opposizione frontale alla «legge-bavaglio».

Giannini, quali sono le ragioni di questo sciopero?



Siamo contro una legge del governo che consideriamo non solo illiberale, ma liberticida, perché attraverso di essa si vuol fare in modo che sia il potere politico a stabilire cos’è giusto che i cittadini elettori vengano a sapere, attraverso i giornali, di ciò che si muove in termini giudiziari intorno al potere e alla cosiddetta «casta».



Che cosa contiene il ddl intercettazioni che proprio non va bene?

Sono due gli elementi di preoccupazione. Il primo riguarda la legalità: il ddl pone gravi limiti alla capacità investigativa dell’autorità giudiziaria, con restrizioni all’uso di uno strumento che i magistrati, non solo quelli dell’Anm ma tutti quelli che lavorano sul campo, considerano uno strumento essenziale di contrasto alla criminalità organizzata. Il secondo attiene al nostro ruolo di giornalisti: il provvedimento è un vulnus per il diritto dei cittadini di essere informati e per quello dei giornali di riportare gli atti giudiziari fino a che non inizia il processo. Sono queste le due ragioni di fondo per le quali lo sciopero non solo è giusto, ma doveroso.



«Il diritto di dare le notizie – obietta Vittorio Feltri – si difende non dandole»? Perché avete deciso di auto-inbavagliarvi?

La ragione è molto semplice: fare in modo che di questa protesta si occupino i telegiornali. L’unico modo per far arrivare ai cittadini un forte segnale di allarme, è stato quello di tacere per un giorno, in modo che con questa decisione anche i telegiornali siano stati costretti ad informare i cittadini che qualcosa di grave sta succedendo sulle loro teste, ai danni della nostra democrazia.

Facciamo un passo indietro. La privacy del cittadino non è minacciata oggi dal potere della stampa di rivelare conversazioni personali prima della celebrazione del processo?

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Il problema della maggior tutela della privacy si può risolvere in maniera molto semplice: rafforzando l’udienza stralcio, cioè quando, ad un certo punto delle indagini preliminari, accusa e difesa si mettono d’accordo di fronte al gip su quale materiale probatorio – in questo caso le intercettazioni telefoniche – sia necessario mantenere e conservare perché utile all’inchiesta in corso, e quale invece debba essere considerato inutile e andare non tanto secretato ma distrutto.

 

Invece, se passa la legge?

 

Con il divieto assoluto di pubblicare tutte le intercettazioni, non soltanto quelle rilevanti ai fini dell’inchiesta ma anche quelle non rilevanti e con la sola possibilità di riassumere i contenuti dell’indagine, non si tutela la privacy ma si fa calare una coltre di nebbia sul quello che riguarda il potere. Pochi giorni fa anche il presidente dell’Autorità garante della privacy ha parlato della necessità si di bilanciare il diritto alla riservatezza con il diritto alle investigazioni. Oggi questo bilanciamento non c’è.

 

Non crede che la politica stia correndo il rischio di essere eccessivamente condizionata dalla magistratura?

 

Se facciamo un bilancio di quello che è accaduto nella vicenda politico-giudiziaria di questi anni, ci accorgiamo che gli eccessi, quando e se ci sono stati, sono stati infinitamente inferiori ai benefici che certe indagini hanno portato nell’aprire uno spaccato sui vizi del potere politico in questo nostro paese. E non abbiamo assistito ad alcuna barbarie né ad alcuna gogna mediatica di chissà quanti leader politici accusati ingiustamente.

 

Non parliamo di Silvio Berlusconi. Le cito però Ottaviano Del Turco.

 

Ma le violazioni al segreto istruttorio o alla tutela della privacy perpetrate in questi anni si contano sulle dita di una mano. Lei ha citato il caso Del Turco, al quale se ne può aggiungere un altro che riguarda il partito avversario di quello del presidente del Consiglio. Quando uno dei leader dei Ds, Piero Fassino, disse a Consorte, a proposito della scalata di Unipol alla Bnl, «abbiamo una banca»? quella fu una palese violazione, perché furono pubblicate intercettazioni che non erano neanche negli atti giudiziari ma soltanto nella disponibilità della Guardia di finanza che le aveva fatte. Penso che la legge in vigore per la difesa del segreto istruttorio sia sufficiente, anche se potrebbe essere aggiornata.

 

È giusto punire gli editori e non chi fornisce le intercettazioni ai giornalisti?

 

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Il principio di punire gli editori è una follia, e introduce all’interno degli ambienti editoriali una grave e pericolosissima distorsione dei ruoli, perché spinge l’editore a entrare in redazione e a decidere cosa va pubblicato e cosa no, decisione che invece spetta rigorosamente soltanto alla direzione giornalistica. Si dovrebbe invece introdurre il principio della responsabilità obiettiva dei capi della procura quando vi siano fughe di notizie a proposito di materiali di indagine coperti dal segreto istruttorio.

 

In Gran Bretagna è solo il primo ministro ad autorizzare, in casi di grave necessità, le intercettazioni telefoniche, che possono essere pubblicate solo se sono prove in tribunale. È quello un paese più autoritario del nostro?

 

Citare questi esempi rischia di essere fuorviante. Le intercettazioni scandalistiche tra il principe Carlo e Camilla Parker Bowles non ebbero bisogno di alcuna autorizzazione e furono liberamente pubblicate dalla stampa britannica senza che questo destasse alcuno scandalo per coloro che l’avevano fatto. Le maglie, come si vede, sono molto più larghe di quanto rischiano di diventarlo nel nostro paese. A meno che non vogliamo pensare che anche in Italia sia opportuno attribuire alla politica, addirittura al capo del governo, il potere di autorizzare personalmente le intercettazioni. Vorrebbe dire aumentare ancor più l’autocrazia incarnata da Silvio Berlusconi, in capo al quale esiste già un grave e scandaloso conflitto di interessi.

 

In un articolo scritto per il sussidiario, Piero Sansonetti si dice preoccupato che la battaglia contro il ddl possa favorire certi “poteri forti”, ai quali la sinistra è tradizionalmente contraria.

 

Bisognerebbe dare un cognome a questi poteri forti. Sansonetti è ormai un «benaltrista»: ogni volta che c’è una questione controversa che riguarda il rapporto tra maggioranza e opposizione o il presidente del Consiglio, dice sempre che il problema è altrove, che ci vorrebbe «ben altro». Faccio un’enorme fatica a capire chi siano davvero i poteri forti, così spesso evocati ma al tempo stesso così difficili da definire.

 

«È una legge – scrive Sansonetti – che limita il potere delle spie e frena lo strapotere degli editori, cioè ridimensiona i poteri occulti che da decenni guidano e condizionano la politica italiana».

 

Faccio francamente fatica a considerare gli editori poteri forti del nostro paese. In realtà, se proprio vogliamo trovare un potere forte, a me pare che esso sia rappresentato dalla politica, e specificamente dal presidente del Consiglio, che non è solo capo legittimo, eletto dagli italiani, del governo del paese, ma anche proprietario di un impero mediatico, industriale e finanziario. La sua situazione non ha eguali nel mondo democratico. Penso che a caratterizzare la democrazia sia il senso del limite, e che il potere che non riconosce più la necessità di autolimitarsi non sia più democratico.

 

(Federico Ferraù)