Tutte le volte che ci incontravamo, cominciava a prendermi in giro con due tormentoni. Cossiga mi guardava e diceva: “Nonostante tutto quello che scrivi e dici su questo Paese, sei un patriota”. E pronunciava la parola con inflessione sarda, che diventava “patriotta”, con una doppia “t”. Il secondo tormentone era più intrigante e riguardava la mia intimità: «So benissimo che hai avuto una fidanzata, una dentista di Voghera». Restavo sconcertato, perché non capivo come lo avesse saputo.
Poi parlavamo di politica e di tutto quello che capitava. Il Presidente della Repubblica Emerito, Francesco Cossiga, non era solo persona intelligente, ma anche un uomo dotato di una cultura enciclopedica, che affascinava. Parlava con competenza di tutto e si appassionava. Aveva una curiosità intellettuale senza confini, quasi fanciullesca.
L’ultima telefonata risale a più di un anno e mezzo fa. Stava occupandosi di una sua grande passione, la teologia, e mi spiegava che “l’odio è un sentimento più forte dell’amore”. Diceva: «Scusa, Da Rold, ma se Lucifero, spirito purissimo, si è ribellato a Dio, vuol dire che l’odio è più forte».
Poi la telefonata cambiò tono e sentii nella sua voce malinconia e tristezza, venate sempre dall’ ironia: «Sto constatando che non mi dai del tu, perché sai che devo morire». Io ribadivo che era la sua carica istituzionale a mettermi soggezione e a non permettermi questa confidenza. Allora lui cambiò ancora tono e si abbandonò ai ricordi: al nonno più amato “cavallottiano e massone”, alla sua terra e alla sua natura barbaricina.
Fu l’ultimo colloquio. Non si fece più sentire e questo mi mise in ansia per il suo stato di salute.
La nostra conoscenza, e posso dire anche amicizia, risale a molto tempo fa. Ma si cementò negli anni di Tangentopoli. Mi lasciò un’intervista, quando ero inviato del Corriere della Sera, che diventò abbastanza famosa “La grande confessione”, quella che avrebbe dovuto fare tutta la classe politica italiana.
Allargò e ribadì il concetto in un’altra mia intervista per L’Europeo. Lo ricordo in una stanza dell’Hotel Palace di Milano, mentre si cambiava con nonchalence i pantaloni. Io gli "sparai" una domanda a bruciapelo: «Perché hanno fatto fuori Craxi?». E lui freddo, riflessivo e allusivo, rispose: «È stato troppo leale con la Dc».
Cossiga era sempre da interpretare. Era a conoscenza di alcuni segreti, ma ci giocava anche con segreti e misteri, che forse non erano tali. La sua passione per spie e strumenti elettronici di spionaggio era conosciutissima. Quando era Presidente della Repubblica invitò a cena persino lo scrittore inglese John Le Carrè, ex agente dell’M16, al Quirinale.
Ma non era questa la vera dimensione di Francesco Cossiga. Era innanzitutto un "cattolico liberale" e un grande uomo politico, che ha partecipato da protagonista a cinquant’anni di storia italiana. Esordio giovanile da sottosegretario alla Difesa, ma poi ecco la terribile esperienza da ministro dell’Interno nel 1978, durante la tragedia nazionale del "caso Moro".
In quel periodo Cossiga era un moroteo, un uomo della sinistra democristiana, ben visto dal Pci dell’epoca, anche se duramente attaccato dalla sinistra extraparlamentare con le scritte "Kossiga", con la kappa e le esse che ricordavano la sigla delle "SS" naziste. Per Cossiga, il "caso Moro" rappresentò una delle svolte decisiva della sua vita. Diceva. «Porto i capelli bianchi e i segni bianchi sulla pelle per quella vicenda».
In effetti Cossiga uscì frastornato e ammalato da quella dolorosa vicenda, che lo portò alle dimissioni dal governo. Probabilmente in quei terribili 55 giorni (tanto durò la prigionia di Moro) di incubo, conobbe la durezza del portavoce di suo cugino Enrico Berlinguer, il deputato comunista Ugo Pecchioli: «Se trattate, salta il governo di unità nazionale».
Vide intrighi, vigliaccherie e banali gelosie. Più tardi, negli anni del Quirinale, passò alcune notti confidando probabilmente quelle cose a due grandi amici: Pippo Marra e Bettino Craxi. La sofferenza fisica di Cossiga, sempre unita a una grande lucidità politica, la si vide anche nei suoi due governi. Poi nel 1985 l’elezione plebiscitaria a Presidente della Repubblica. Seguirono cinque anni di assoluta discrezione al Quirinale.
È nel 1990 che compare, apparentemente, un altro Cossiga. Quando cade il Muro di Berlino e implode il comunismo, quando i comunisti italiani sono allo sbando e stanno cambiando nome, quando esplode Tangentopoli e si mette sotto accusa tutta la vecchia classe politica italiana, Francesco Cossiga diventa il "picconatore".
In alcuni ambienti craxiani, c’è chi sostiene che Cossiga non fu lineare e pasticciò un pò con il "manipulitismo". Ma Craxi lo difese e lo considerò sempre un amico. Il fatto è che i comunisti, sulla strada di diventare post-comunisti, mettono Cossiga nel mirino e lo attaccano per "Stay behind", la famosa "Gladio", una forma di deterrenza organizzata nell’ambito della Nato. A un certo punto, il segretario Achille Occhetto ne chiede addirittura l’empeachement.
Qui Cossiga rivela tutta la sua capacità di resistenza, diventa un’implacabile accusatore, dice di tutto e di più con il suo stile ironico, dissacrante, aggressivo e in certi casi quasi goliardico. Ma mai banale nelle sue famose esternazioni.
Le "picconate" partono dalle rivelazioni sulla strage di Bologna. «Un incidente non voluto di qualche corriere palestinese», afferma Cossiga, che così smentisce la tesi della "strage fascista" e rivela il "grande accordo" siglato sin dagli anni Settanta tra Italia e palestinesi.
Quando i comunisti lo incalzano su "Gladio", Cossiga chiama una sera Massimo D’Alema al Quirinale nell’ottobre del 1991. A rivelarlo è Valerio Riva nel suo libro "Oro da Mosca". Cossiga dice: «Abbiamo saputo da ufficiali del KGB fedeli a Eltsin che voi siete coinvolti nell’esportazione clandestina di valuta». D’Alema trasale e poi risponde con imbarazzo.
Il "picconatore" è incalzante e alla fine verrà assolto da ogni addebito in merito alla montatura su "Gladio", non risparmiando qualche frecciata anche alla magistratura, come quando minacciò, in una precisa occasione, di mandare i carabinieri nella sede del Consiglio Superiore della Magistratura, o come quando ironizzò sui rapporti tra la procura di Milano e la redazione del Corriere della Sera: «Il gatto del portinaio del Palazzo di Giustizia è innamorato e si confida con la gatta del portinaio di via Solferino. Per questo il Corriere fa gli scoop sugli avvisi di garanzia».
Anche negli anni della cosiddetta "Seconda Repubblica" Cossiga è un protagonista come senatore a vita. Crea l’Udr, appoggia il governo D’Alema, che favorisce la partecipazione dell’Italia alle operazioni in Serbia e poi interviene su tante questioni, anche di natura finanziaria, sempre con il suo linguaggio dissacrante.
Mancherà l’ironia e l’intelligenza di Cossiga a questa Italia scombicchierata. Confesso che un miscredente come me, in queste sere, ha recitato sempre un’Ave Maria per il presidente in sala rianimazione.
Del resto sarà difficile dimenticarlo. Lo ricordo a un Meeting con la maglietta di Comunione e Liberazione. Lo ricordo in una fotografia, a casa di Craxi, a Hammamet. Bettino è stato appena operato e sa benissimo che deve presto morire. Dice: «Francesco, lo sai vero che non ci rivedremo più?». Cossiga lo abbraccia quasi con tenerezza, sfidando il conformismo italiano giustizialista, che in quegli anni era irritante.
Bentornato al Padre, Presidente.