Da qualche giorno rientrata dall’ospedale dopo la nascita del mio terzo figlio, nella sala d’attesa del mio pediatra, sfoglio l’ultimo numero del New York Magazine. In copertina c’è una donna dall’aria depressa che tiene in braccio un neonato. Il titolo è: “Love my children, hate my life” – (Amo i miei bambini, odio la mia vita) ovvero “Why parents hate parenting” (perché i genitori odiano essere genitori).
L’articolo è incentrato sul tema dell’insoddisfazione che sembra accompagnare l’essere genitori oggi negli Stati Uniti e su come, nonostante l’avere dei figli sia generalmente atteso come una fonte certa di felicità, tutta l’evidenza accademica in campo sociologico dimostra il contrario. La maggior parte degli studi in materia mostra infatti che essere genitori è oggi vissuto come qualche cosa di difficile e spiacevole in quanto i figli sono motivo di frustrazione, noia, ansia, stress per la coppia.
Probabilmente il risultato più rilevante, e più frequentemente citato, è quello di una ricerca effettuata dal premio Nobel per l’economia Daniel Kahneman che, nel 2004, ha intervistato 909 donne lavoratrici del Texas scoprendo che il prendersi cura dei propri figli veniva classificato in base alla piacevolezza come sedicesima attività su diciannove (fra le attività preferite: cucinare, guardare la televisione, fare sport, parlare al telefono, dormire, fare shopping, fare le faccende domestiche).
A simili conclusioni sono giunte le ricerche sul grado di soddisfazione nel rapporto di coppia, come quella dell’economista Andrew Oswald, che, analizzando decine di migliaia di coppie con figli e confrontandole con coppie senza figli, ha scoperto che avere dei figli non rende più felici e che anzi la felicità della coppia diminuisce al crescere del numero dei figli; mentre i genitori single sono risultati essere i più infelici di tutti.
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Il risultato sarebbe confermato da Robin Simon, un sociologo della Wake Forest University: secondo le sue ricerche, chi ha figli è mediamente più depresso di chi non ha figli, indipendentemente dal numero di figli e dalla propria condizione coniugale.
L’effetto dei figli sulla vita di coppia sarebbe negativo per molteplici ragioni: i figli tolgono tutto il romanticismo dalla relazione e lo sostituiscono con uno scialbo realismo, sono argomento principale di disaccordo, stressano e stancano, consumano il tempo e l’energia prima rivolte allo svago e al divertimento, non permettono alla coppia di passare abbastanza tempo da soli, privano di una vita precedentemente libera e autonoma, ecc.
Un ulteriore studio è quello degli psicologi W. Keith Campbell e Jean Twenge che nel 2003 hanno condotto un’analisi che riassumeva i dati provenienti da 97 ricerche diverse (risalenti fino agli anni ‘70) sul tema della soddisfazione nel rapporto genitori-figli. Il risultato più importante cui sono giunti è che l’insoddisfazione dei genitori cresce proporzionalmente al loro reddito; cosa che potrebbe sembrare contro-intuitiva, dato che famiglie più abbienti possono permettersi più aiuto nella cura dei propri figli e della casa.
L’ ipotesi formulata da questi psicologi è che le coppie con reddito più alto tendono ad avere figli più tardi e ciò accresce la sensazione di perdita di libertà, benessere e autonomia (quando invece le coppie che hanno figli in giovane età in un certo senso non sanno quello che si perdono).
Si pensa in pratica prima a divertirsi, a viaggiare, a farsi una carriera, a risparmiare dei soldi e solo una volta che si è conquistato tutto questo si pianifica quando, come e quanti figli fare. Ecco quindi che “i figli finiscono per essere visti come un premio per tutto il duro lavoro svolto in preparazione” dice Ada Calhoun, autrice del libro “Instinctive Parenting” (letteralmente essere genitori in modo istintivo) e fondatrice di Babble (un sito web dedicato alle problematiche dell’essere genitori), “tranne poi accorgersi che il premio consiste in una sfacchinata lunga diciannove anni”.
Non solo, ma come spiega Alex Barzvi, un professore di psichiatria infantile alla New York University Medical School, “coppie con un reddito più alto e livello d’istruzione superiore, occupati in carriere da professionisti, uomini e donne di affari, tendono a usare lo stesso approccio alla famiglia e gestirla come il lavoro”. Insomma essere genitori è spesso visto come un altro lavoro. “I figli”, conclude Barzvi, “un tempo considerati i lavoratori dipendenti di una famiglia, oggi ne sono divenuti i capi”.
Vi è dunque la tendenza fra i genitori moderni americani a considerare i bambini come progetti da perfezionare in modo specialistico: bisogna insegnargli almeno due lingue, iscriverli a tutti i tipi di classi, fargli frequentare le scuole migliori, rispondere alle loro domande con altre domande per stimolare la loro curiosità, ecc. I riferimenti cui guardare per sapere “come fare” sono infiniti: libri, riviste, siti web, blog, forum on-line, canali televisivi dedicati alla materia.
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Esiste uno standard, un modo giusto e un modo sbagliato, per tutto ciò che riguarda i figli. E questo confronto costante con un modello o una teoria astratta a generare l’impressione di sbagliare, l’ansia e il senso di colpa. Come dice una donna che ha partecipato ai gruppi di sostegno di Barzvi “soprattutto all’inizio, quando ascolti la mamma del bebè che di notte dorme tredici ore di fila, è facile concludere che sul dormire hai sbagliato tutto”.
Spiega Judith Warner, autore di “Perfect Madness: Motherhood in the Age of Anxiety” (Pazzia perfetta: essere madri nell’età dell’ansia), come parte del problema sia socio-economico: gli Stati Uniti sono un paese in cui non esiste un sistema di welfare a sostegno della famiglia, in cui il periodo di maternità garantito per legge è molto breve, in cui non esistono asili pubblici, in cui le famiglie devono anche preoccuparsi di pagare l’assistenza sanitaria privata. In tale contesto, l’ansia cresce: “ma invece che concentrarsi a cercare di migliorare queste condizioni a livello politico”, fa notare Warner, “si concentrano tutte le energie sul diventare genitori perfetti”.
Richiudo il giornale e inorridisco: a pochi giorni dalla nascita del mio terzo figlio, mi aspetta una vita più infelice e un rapporto coniugale a rischio d’insoddisfazione? Eppure non posso fare a meno di notare come la questione sia in fondo mal posta.
La conclusione realmente rilevante che traggo da tutti questi studi è che l’insoddisfazione dell’essere genitori nasce dal presupposto che avere dei figli dovrebbe di per sé rendere felici. Ma ciò non è per nulla scontato. Non esiste un’altra persona, a ben vedere nemmeno il proprio partner, a cui poter indirizzare la propria domanda di felicità, senza che questo comporti lavoro, fatica, pazienza e qualche volta anche noia, stress e frustrazione.
C’è questo presupposto ambiguo all’origine dell’approccio ansioso, un po’ nevrotico, alla questione dei figli. Un presupposto che in verità mi pare del tutto simile all’approccio con cui la famiglia americana moderna affronta tutta la propria vita. Si tende a trasferire la propria aspettativa di felicità su un oggetto visto come garanzia di futura soddisfazione: cambiare lavoro, sposarsi, comprare la casa più grande, accumulare un certo ammontare di soldi.
La vita rischia così di essere un susseguirsi di traguardi il cui raggiungimento dovrebbe regalarci la felicità, ma che invece si rivelano immancabilmente insoddisfacenti. La realtà non è che questi oggetti siano di per sé negativi (come non è vero che di per sé i figli rendono infelici), ma piuttosto che essi rappresentano un’astrazione, qualcosa che non esiste e al cui confronto la realtà esce sempre sconfitta.
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Allo stesso modo, quella che viene proposta oggi dalla maggior parte dei media americani è un’idea di felicità astratta, decisa a tavolino; è un miraggio funzionale a un sistema consumistico, che ha poco a che vedere con la realtà. Ne deriva non una contentezza goduta nel momento, ma un godimento retrospettivo e quindi melanconico della propria vita. Succede cioè che ci si accorge solo a posteriori di quanto si era felici in un tempo passato.
E infatti il New York Magazine cita in conclusione anche uno studio, apparentemente in contraddizione con le ricerche descritte in precedenza, condotto sette anni fa dai sociologi Kei Nomagushi e Melissa A. Milkie che seguirono coppie sposate per un periodo dai cinque ai sette anni, alcune delle quali avevano figli e altre no. Il risultato a cui giunsero è che le coppie che avevano avuto figli risultavano essere meno depresse nel lungo periodo.
In un altro studio Robin Simon scoprì che i genitori di figli che avevano già lasciato casa descrivevano l’esperienza passata con i propri figli con termini come gratificazione, nostalgia, diletto. Simon dimostrò inoltre che chi non ha figli diventa poi depresso più tardi nella vita, pentendosi di non aver fatto figli, perché i figli darebbero uno scopo, un senso di gratificazione. A posteriori.
C’è una domanda interessante che a un certo punto pone Jennifer Senior, autrice dell’articolo, e cioè che forse tutta la risposta a questa questione sta nel come uno definisce concetti come soddisfazione o felicità e se queste siano più riconducibili a un’esperienza o a un modo di pensare. E perché non a entrambi? La convinzione di poter controllare e programmare tutto nella vita ha poi molto a che fare con la difficoltà di godere della realtà così come ci è data nel presente.
Nei giorni scorsi ho scoperto che l’articolo del New York Magazine ha suscitato un gran clamore online, con migliaia di genitori che hanno partecipato a questo dibattito (chi dichiarandosi totalmente depresso e chi felicissimo). Ho pensato all’esperienza con i miei tre figli. Anche se non posso esattamente dire che mi hanno reso una persona più felice, certamente mi hanno regalato una possibilità unica e inaspettata di soddisfazione. Se non altro, hanno reso la mia vita più interessante rendendomi capace di lasciare andare il controllo, dimenticare le mie aspettative e rimanere aperta alla sorpresa. A parte questo, rimangono per me un gran mistero.
Dalla mia esperienza deduco che forse essere felici come genitori ha molto a che vedere con la capacità di accettare la diversità e la libertà dei propri figli. Al contrario l’ansia e la frustrazione derivano dal tentativo, comune ma pur sempre disperato perché impossibile, di controllare ciò che è di per sé incontrollabile e imprevedibile (che sia la propria vita o un’altra persona).