David Kretzmer è stato vicepresidente del Comitato sui diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, ed è professore emerito di diritto internazionale presso la Hebrew University di Gerusalemme. Al Meeting di Rimini parlerà oggi in un incontro dal titolo I diritti umani sono ancora diritto? Ilsussidiario.net lo ha incontrato per fargli alcune domande sui diritti dell’uomo, sulla loro efficacia e sulla coesistenza tra religione e stato laico.
Dopo la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo contro il crocifisso, crede che l’esperienza di Israele, uno stato democratico dall’identità fortemente religiosa, possa insegnare qualcosa all’Italia e ai giudici di Strasburgo?
Non credo che l’esperienza di Israele su religione e vita pubblica possa insegnare molto ad altri. In Israele c’è ancora una lotta tra partiti religiosi che usano il loro potere per votare leggi e trovare accordi che implicano l’imposizione di norme religiose indistintamente a credenti e non credenti; ci sono, però, anche altri elementi che favoriscono uno stato liberale e laico. In teoria, infatti, Israele è uno stato laico. Il suo carattere ebraico si fonda su una concezione degli ebrei come popolo, piuttosto che su una semplice opzione religiosa. Comunque, negli ultimi anni, ci sono state delle irruzioni in questa concezione. Nella misura in cui i gruppi religiosi diventano più forti, cresce il tentativo di identificare lo stato ebraico con precetti religiosi. Per contro, c’è sempre stato un ampio riconoscimento del fatto che una grande parte della popolazione non è ebrea, e non ci sono tentativi di imporre simboli religiosi (non nazionali) a non ebrei (soprattutto arabi). Il mio punto di vista è chiaro: io credo nella separazione tra religione e stato. Questo è un bene non solo per i non credenti, ma è meglio anche per la religione. In Israele l’atteggiamento negativo e spesso ostile di molti laici ebrei deriva direttamente dalla loro percezione che le norme religiose vengono loro imposte contro la loro volontà. La religione non potrà essere salva in Israele finché non divorzia dallo stato.
Talvolta le istituzioni internazionali non sono avvertite come soggetti che aiutano stati e società infragiliti, ma come attori volti a smussare e diminuire società dalle identità forti. Come giurista impegnato in un comitato delle Nazioni Unite, come ci si deve rapportare a una società dalla forte tradizione, affinché sia anche tollerante?
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Tutto dipende dalla natura di quella tradizione forte, e da quanto essa sia compatibile con l’apertura, la tolleranza, l’uguaglianza. La questione più grossa sorge quando la tradizione nega l’uguaglianza tra uomini e donne, e nega i diritti fondamentali alle donne. È praticamente impossibile promuovere l’uguaglianza di uomini e donne nella vita pubblica quando una tradizione forte la rifiuta. Nella misura in cui le istituzioni internazionali, quali gli organi sui diritti umani, promuovono i diritti delle donne, esse possono essere percepite come antagoniste di tradizioni accettate in alcune società. Una questione simile sorge anche quando si tratta di discriminazioni sull’orientamento sessuale, o anche sulla criminalizzazione di rapporti sessuali consensuali tra persone dello stesso sesso. Se una tradizione forte non comporta la negazione di diritti umani fondamentali, dovrebbe essere possibile mantenerla in una società aperta e tollerante. Ma l’adesione alla tradizione deve sempre rimanere opzionale, e non ci dev’essere alcun tentativo di usare istituzioni politiche e giuridiche per forzare la gente a mantenere tali tradizioni.
Molte società hanno oggi un grande bisogno di diritti umani, basti pensare alla Cina, all’Iran, al Venezuela, o ai paesi africani come il Congo. Può dirci se uno di questi stati si è coinvolto con una istituzione internazionale e ha migliorato la situazione della propria società?
Purtroppo le istituzioni internazionali che si occupano dei diritti dell’uomo non hanno grandi successi nei casi veramente difficili, ossia in quegli stati in cui ci sono violazioni dei diritti umani gravi e diffuse. Le istituzioni politiche, come il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sono sfacciatamente condizionate dagli interessi politici degli stati e non sono attrezzate per occuparsi di problemi seri di diritti umani in certi stati (Cina, Iran e Venezuela sono dei buoni esempi). Gli organi basati su un trattato internazionale sono preparati per affrontare tali questioni, ma la loro influenza sugli stati che violano sistematicamente i diritti umani è scarsa. Questi organi per promuovere il loro lavoro generalmente dipendono da gruppi che sono espressione della società civile (soprattutto Ong sui diritti umani), e negli stati in cui tali gruppi sono deboli, non esistenti o perseguitati, i punti di vista degli organi ufficiali vengono di fatto ampiamente ignorati.
Quale ruolo occupa la società civile nel costruire una società in cui non si parli dei diritti umani solo come qualcosa di imposto, ma come espressione della normale vita quotidiana?
La società civile riveste un ruolo assolutamente essenziale nel preservare i diritti umani in tutte le società. Meno si deve fare affidamento su meccanismi formali e giuridici per vederli applicati, meglio è per tutti. Nella società si può venire a creare un’atmosfera per cui la violazione di certi diritti fondamentali è guardata come inaccettabile. L’esempio più chiaro in tal senso è quello della discriminazione sulla base del sesso, della razza, della religione, di appartenenza etnica o politica: ormai il fatto che sia intollerabile discriminare per tali ragioni nel lavoro, nel dare una casa, nel distribuire servizi o in altri aspetti della vita pubblica, deve essere assimilato da ognuno. La società civile, col mostrare una tolleranza zero in queste ipotesi di discriminazione, contribuisce a tale assimilazione. Si può dire lo stesso per i casi di razzismo, o di istigazione al razzismo. In queste ipotesi, più che le reazioni della legge sono importanti le reazioni della società civile: quando i valori di non-discriminazione e di tolleranza di chi è diverso (o percepito come tale) divengono parte della vita quotidiana di una società, questa diventa più umana.
I diritti umani oggi sono usati spesso nella sfera pubblica. Da una parte, nei tribunali, essi sono regole giuridicamente vincolanti; dall’altra, sui media e in politica, essi diventano dei principi che danno forma a una asserita morale neutra e condivisa. Crede che questa confusione porti una minaccia a un’autentica libertà di pensiero?
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Credo che in molte società ci sia oggi una tendenza ad iper-legalizzare i valori, inclusi i diritti umani. Questo può avere degli effetti negativi a diversi livelli. Primo, può creare l’impressione che ogni cosa che è legale è anche moralmente e politicamente accettabile. Nella tradizione ebraica abbiamo un detto che dice che anche se il cibo è kosher, può comunque puzzare. Secondo, potrebbero esserci dei tentativi di zittire dibattiti su questioni su cui i dibattiti dovrebbero, invece, essere aperti. C’è il pericolo che il politically correct soffochi discussioni libere su questioni complesse che vengono, invece, presentate come problemi semplici di diritti umani, in cui si può stare solo o da una parte o dall’altra. Ad ogni modo, un forte sostegno dei diritti umani, se è inteso correttamente, crea un’atmosfera in cui prospera la più autentica libertà di pensiero e d’espressione.