Perché negli Stati Uniti ciascuno dovrebbe avere a cuore chi ancora non è ancora nato? La risposta è, credo, abbastanza semplice, e chiede che vengano svolte due premesse. Primo, gli Stati Uniti, come diverse altre nazioni e popoli di buona volontà, sono vincolati a un forte principio normativo di uguaglianza tra gli uomini.
Il rispetto per l’eguale dignità degli uomini è scritto nei nostri strumenti fondativi della nazione, vale a dire la nostra Costituzione e la Dichiarazione d’indipendenza. Siamo vincolati all’affermazione che tutti i popoli sono creati uguali. Nel mio Paese è stata combattuta una dura guerra civile in nome di questo principio. A dirla tutta, in America non abbiamo saputo vivere ai livelli richiesti da questa affermazione, e l’abbiamo violata, e nei modi più gravi, in molte occasioni. Senza dubbio anche in futuro ci saranno occasioni in cui non onoreremo questo principio. Però questo è lo standard a cui, senz’ombra di dubbio, come bene centrale, ci siamo impegnati a tenere fede.
Un aspetto cruciale di una tale concezione di uguaglianza è il fatto che essa sia pre-politica. Si tratta di una caratteristica intrinseca della persona umana: non è uno status che può essere attribuito o tolto dal governo. Questo aspetto chiave del principio di uguaglianza merita una riflessione più calma. Consideriamo le alternative. Se l’uguaglianza fosse semplicemente una nozione contingente, se un governo potesse, secondo i propri interessi, allargare o negoziare lo spettro di chi debba essere considerato persona, non vi sarebbe affatto uguaglianza. La frase “rispetto per l’uguaglianza”, perché abbia qualche significato, implica che debba esserci un contrappeso al potere del sovrano.
Non inganniamoci, ci sono molti pensatori che attraverso la storia hanno difeso l’idea corrotta che sia il governo a conferire gli status morali e a garantire (e quindi anche a togliere) i diritti dell’uomo. Queste persone guardano lo status morale, la questione umana, e la protezione giuridica, come qualcosa di ormai acquisito o conquistato. Sistematicamente, in questi approcci, è poi il forte che stabilisce gli standard che devono essere soddisfatti per meritare una considerazione morale e una protezione giuridica, standard stabiliti secondo i propri bisogni e i propri desideri.
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Prendiamo un grande pensatore come il Professore Ronald Green, un bioeticista molto influente in America, che sostiene esplicitamente che la personalità – il massimo status morale – è una designazione conferita ad altri dai normo-dotati a seconda di quanto maggiormente porti beneficio ai loro interessi.
In questa visione, lo status morale (e le protezioni che comporta) cresce e diminuisce secondo il giudizio degli altri, alla luce di criteri fisici, mentali od occasionali che alcuni possono stabilire. Ciò colpisce il principio di uguaglianza alla sua testa, dando un privilegio alle pretese del più forte sul più debole. Questo principio di personalità contingente porta a conseguenze pratiche mostruose – incluso, per esempio, che le persone vengono valutate su una scala variabile di parametri morali e giuridici, a seconda della loro abilità cognitiva, della loro utilità, forza e così via. Questa nozione è manifestamente opposta e non conciliabile con una concezione piena di uguaglianza.
Così, la prima premessa necessaria per capire perché ci si debba occupare delle vite di chi ancora non è venuto alla luce, è avere in mente questa concezione piena e non monca di uguaglianza.
La seconda premessa è che chi non è ancora nato è senza dubbio parte della specie umana. L’embriologia moderna conferma la proposizione che i non nati sono già organismi umani in tutto, completi, auto-diretti, integrati, i quali, benché immaturi, si muoveranno lungo una traiettoria senza soluzione di continuità dallo stato di embrione, a quello di feto, di neonato, di bambino, di adolescente, di adulto – a condizione che ad essi sia dato un adeguato nutrimento ed ambiente circostante. Neppure il fatto che vi sia un “gemellaggio” tra embrioni, o che vi è un apparente alto tasso di perdita di embrioni nell’utero sminuisce la proposizione che dallo zigote (fase di una cellula) in poi, l’embrione umano è un organismo vivente appartenente alla specie homo sapiens.
Se combiniamo l’unica concezione difendibile dell’eguaglianza umana, la prima premessa, con il fatto ovvio che chi non è ancora nato fa parte della famiglia umana, la seconda premessa, arriviamo a una chiara conclusione normativa: i non nati sono titolari del rispetto morale fondamentale, ed essi non possono essere usati, o distrutti, per il beneficio di altri.
A maggior ragione, essi non possono essere mai uccisi intenzionalmente, anche se potrebbero essere più utili per noi da morti che da vivi, anche se sono piccoli, indifesi, e non ci sembrano così familiari come lo sarebbero dei fratelli o delle sorelle. Anche nei casi in cui tali persone sono destinate a morire comunque, non dovremmo mai desiderare la loro morte per i nostri fini. Non dovremmo mai spegnere le loro vite perché sono un ostacolo ai nostri desideri. Non dovremmo mai ucciderli perche giudichiamo le loro vite non più degne di essere vissute.
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Inoltre, le loro vite non possono lasciarci indifferenti. Abbiamo un obbligo di proteggerli da abusi e negligenza. Il non farlo costituisce una grave ingiustizia.
In breve, il valore fondamentale morale e giuridico di ogni membro delle specie umana non deve mai dipendere dalla sua taglia, età, posizione, condizione di dipendenza, utilità o gravosità per una società, o dal valore a lei assegnato da altri secondo i loro desideri. Per i cristiani, questa ingiunzione deve avere una risonanza speciale. Sono dei nostri fratelli e sorelle, fatti ad immagine di Dio, e Cristo morì per loro. I più deboli e i più vulnerabili hanno una pretesa speciale verso di noi. Come ha giustamente osservato Hans Jonas, «una vulnerabilità totale esige una protezione totale».