“L’esperienza più importante fatta quest’anno? Quella della mia fragilità”. Margherita Coletta risponde così, a bruciapelo, a chi le chiede di anticipare i contenuti del suo intervento al Meeting per l’amicizia fra i popoli. Oggi la vedova del brigadiere Giuseppe Coletta interverrà alla kermesse riminese, durante un incontro con Lucia Bellaspiga e don Eugenio Nembrini dal titolo “Al cuore dell’esperienza: perdonare è possibile”.
E’ la prima volta che Margherita Coletta accetta di partecipare all’evento di fine agosto, e lo fa in un momento della sua vita molto particolare. Una serie di situazioni, personali e familiari, che hanno profondamente messo in crisi la coraggiosa donna siciliana, che si è sentita rimessa in discussione alla radice. Tolta da quel piedistallo sul quale la voleva mettere qualcuno, nonostante non fosse mai stato questo il modo in cui lei voleva porsi. Margherita Coletta ha accettato di parlarne con Il Sussidiario, nella convinzione che “è giusto saper ammettere la propria fragilità, che la fede non elimina questo, non toglie gli errori. Gesù non ci vuole come marionette. Sbagliamo, cadiamo, ci rialziamo e in questo modo facciamo esperienza”.
In questi sette anni trascorsi dall’attentato di Nassirya a oggi, la sua volontà di non arrendersi al dolore per quanto è accaduto è diminuita o aumentata?
Direi che si è trasformata, attraverso le vicende che mi sono trovata ad affrontare. L’ultimo anno per me non è stato per niente facile. Sono successe delle cose dove purtroppo non ho sentito la presenza di Cristo nella mia vita, ma anche se io non lo avvertivo restava radicata in me la certezza che lui era presente. Una serie di accadimenti a livello familiare, di amicizie, di conoscenze, tali per cui non sentivo più Dio accanto a me. Però sapevo comunque che c’era, che era una condizione mia, non sua, quella che non me lo faceva avvertire come presente.
Che cosa è accaduto e che cosa le ha fatto imparare?
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Ci sono state una serie di situazioni che si sono venute a creare e che mi hanno fatto toccare con mano la mia fragilità, il mio essere uguale a tutti gli altri. Perché è importante sapere che la fede viene in aiuto, viene in soccorso, ma non ti toglie il dolore, la sofferenza. Non ti risparmia il fatto di dover affrontare la quotidianità, le cose di tutti i giorni proprio come le altre persone. Non sono i grandi dolori, ma queste cose banali che fanno sì che a un certo punto uno può crollare, sentendosi il peso della fragilità umana che abbiamo tutti. In questi mesi sapevo che Dio c’è e sono rimasta ancorata a lui, anche se la mia condizione concreta di persona era tale per cui non lo avvertivo più accanto. E’ come quando c’è un temporale, ci sono le nuvole, ma sai che sopra le nuvole c’è sempre l’azzurro.
E in che modo lei è cambiata attraverso queste cose che sono successe?
Sono cresciuta, perché attraverso quest’anno mi ha fatto tanto male ho capito molto di più che la fede va vissuta, non è fatta soltanto di belle parole. Con l’età uno matura, vive le cose in modo diverso, più adulto. E’ quello che è successo anche a me. E’ vero che sono stata già toccata nella vita da due grandi dolori, però stavolta era una cosa personale, con me stessa, non era una cosa di riflesso. Non era una cosa accaduta come in precedenza a mio marito o a mio figlio. Adesso a essere messo in discussione sono stata io, il mio rapporto personale con Dio, mio e suo, e basta.
In che modo per lei il cristianesimo è qualcosa che riguarda non solo i momenti drammatici della vita, ma anche la banalità di tutti i giorni?
Il cristianesimo riguarda soprattutto la banalità della vita di tutti i giorni, e l’ho sperimentato nell’ultimo anno. Le piccole cose, la quotidianità, i rapporti interpersonali… se non sei veramente sorretto dalla fede sono queste le cose che ti fanno andare in crisi. E ho capito che quando agisci da sola sbagli, quando pensi di farcela con le tue forze, magari dando per scontato che Gesù è presente, alla fine si cade, alle volte in maniera terribile. Però alla fine ci si rialza sempre, se si rimane ancorati a lui.
Magari con le ginocchia un po’ sbucciate…
Sì, ma anche più forti di prima. Sono proprio i nostri errori a farci fare esperienza di che cos’è veramente il cristianesimo. Ma io preferisco chiamarle esperienze più che errori, perché ti fanno diventare quello che poi uno è.
Tutti i grandi santi hanno avuto dei momenti difficili, penso per esempio a madre Teresa di Calcutta. Che cosa fa sì che anche una persona come madre Teresa possa andare in crisi sulla fede?
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Il motivo è che uno, per poter prendere parte a tutto quello a cui ha preso parte Cristo, deve sperimentare la propria fragilità, deve rendersi conto realmente che siamo un nulla senza di lui. Anche le esperienze negative, che possono sembrare di separazione dalla sua presenza, sono utili perché consentono di capire quanto è grande l’amore di Dio e sperimentarne la misericordia. In questo modo infatti nonostante gli errori, nonostante tutto quello che uno può arrivare a commettere, nella nostra piccolezza che siamo ci rendiamo conto davvero di quanto è grande il suo amore.
E quindi poi non pesano nemmeno gli errori commessi, almeno io così la sto vivendo così. E quindi anche sbagliare strada trasforma e ti fa diventare migliore. Ed è anche ciò che impedisce di mettere su un piedistallo chi segue Gesù, dicendo: “Io non sarò mai come lui”. E’ giusto anche comunque che uno ammetta la propria fragilità, che la fede non toglie questo, non elimina gli errori. Gesù non ci vuole come marionette. Sbagliamo, cadiamo, ci rialziamo e facciamo esperienza di questo.
Perché spesso quando vediamo degli esempi positivi, diciamo spesso: “Io non sarò mai così?”.
Alle volte è anche una situazione di comodo, perché dicendo così non ci sforziamo più di tanto (ride, Ndr). Ma a parte gli scherzi, in realtà si tratta di un aspetto molto personale. Il rapporto con Cristo, anche se il Vangelo è uno, è molto personale. Gesù si manifesta in maniera diversa per ognuno. Siamo tutti suoi figli, però lui ci conosce singolarmente, sa come siamo.
Nel suo incontro al Meeting parlerà del tema del perdono. Che cosa rende il perdono possibile per alcuni e impossibile per altri?
Il perdono non è una scelta che si fa in un momento particolare, è più la conseguenza di una condizione di vita, di quello che uno vive. Non è che uno si mette a tavolino e dice “Oggi lo perdono”. E’ più il frutto dato dalla fede.
Il titolo del Meeting di quest’anno è “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore”. Che cos’è il cuore per lei e come lo spiegherebbe ai suoi figli?
Se parliamo di anatomia il cuore è un muscolo e basta. Per noi cristiani invece nel cuore risiede l’anima, e quindi tutte le azioni buone provengono da lì. Quando uno ha delle aspirazioni grandi, ha voglia di fare, soprattutto se per il prossimo, è Cristo che lo spinge a fare. Umanamente a volte non ci passerebbe nemmeno per l’anticamera del cervello di soccorrere gli altri, ci viene più voglia di pensare solo a noi stessi. E invece Gesù ci mette nel cuore questo piccolo seme e ci dà la forza di affrontare, di creare, di fare cose anche più grandi di noi. Da parte nostra c’è solo il nostro sì, come Maria.
(Pietro Vernizzi)