«Se Giussani chiama “cuore” questo deposito di affetto, di relazione, si può dire che sì, è vero: cuore e ragione si muovono in qualche modo insieme e non è possibile intenderli l’uno senza l’altra. Non è una questione di organi, ma di identità umana». Lo dice al sussidiario Ezio Mauro, direttore di Repubblica, commentando la relazione di don Stefano Alberto sul tema del Meeting, «Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore».
C’è davvero in noi questo desiderio dell’assoluto, o è una domanda vana?
Sì, c’è in noi un desiderio che ci spinge a guardare al di là dell’orizzonte immediato, a sobbarcarci di imprese che sembrano impossibili, ad andare continuamente al di là di quelli che consideriamo i nostri limiti. Questo desiderio, io credo, non può essere «altro» dalla nostra profonda e autentica umanità. Anche quella dei nostri momenti più neri, quelli in cui ognuno fa i conti con le proprie miserie e i propri errori.
Giussani prese sul serio lo slogan del ’68 «siate realisti, domandate l’impossibile». Il nostro cuore è esattamente questa domanda di infinito. Desiderare l’“impossibile” è realismo o utopia?
Il ‘68 ha dimostrato che si poteva desiderare l’impossibile. Pensiamo all’incrostazione autoritaria e borghese che dominava in tanti rapporti, all’interno della società, nella scuola, tra uomo e donna. In molti, tanti casi era rinuncia, o acquiescenza al limite, quello che opprime la nostra ragione con divieti che ammettono spiegazioni più autoritarie che autorevoli. Il ribaltamento di questo schema, anche in termini non religiosi ma semplicemente laici, è stato qualcosa che si è dimostrato possibile. Credo che don Giussani si sia mosso sul filo del rasoio.
Secondo Giussani al fondo della nostra ragione c’è il cuore, come sintesi di intelligenza e affezione: non possiamo conoscere senza affetto e non possiamo amare senza conoscere. La cultura moderna invece ha fatto del cuore la sede di un arbitrio sentimentale e della ragione una semplice capacità di calcolo. Lei che ne pensa?
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Bisogna intendersi. Ci sono momenti in cui è il cuore a determinare le nostre scelte, e altri momenti in cui è la ragione a farlo. Ma se pensiamo alla quotidiana realtà, a quello che siamo e alle esperienze che abbiamo vissuto, allo sviluppo della nostra personalità, siamo quello che siamo anche per come ci hanno determinato gli incontri della nostra vita. E non è possibile concepire tutto questo come esito di puro calcolo.
Ma il cuore, secondo lei, «conosce»?
Se Giussani chiama «cuore» questo deposito di affetto, di relazione, si può dire che sì, è vero: cuore e ragione si muovono in qualche modo insieme e non è possibile intenderli l’uno senza l’altra. Non è una questione di organi, ma di identità umana.
Giussani non pretese di definire il cuore «ad uso dei cattolici», ma per descrivere l’esperienza umana come tale. Secondo lei qual è la portata di questo «linguaggio universale del cuore» e quali conseguenze ne scaturiscono?
Molte parole di Giussani parlano a chi crede e a chi non crede e il suo insegnamento mi ha sempre ispirato una cultura del pluralismo. È il pluralismo la strada giusta per una vera democrazia: non si può definire la democrazia senza il pluralismo ma il pluralismo può aver solo a che fare con l’umano, e dunque con il profondo rispetto delle sue istanze elementari di libertà e di giustizia.
Alla luce di quelle che chiama «istanze elementari di libertà e di giustizia», qual è il compito della politica?
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La politica dovrebbe ricordarsi che deve servire i cittadini e il paese, ma è una vocazione che pare perduta. La classe politica è ormai qualcosa di autoreferenziale, esattamente come accadeva negli anni bui del potere sovietico: una «classe eterna» che si auto-perpetua e autoperpetuandosi, si separa dal popolo. Il concetto di rappresentanza implica dei doveri: io, eletto, ho la fortuna e il privilegio di rappresentare una comunità, persone spinte da ideali, valori e interessi reciproci e legittimi, che poi sono le cose che fanno muovere le bandiere della politica. Bandiere che in Italia sono del tutto afflosciate, a destra come a sinistra.
Dal suo punto di vista privilegiato di direttore di un grande quotidiano nazionale, se dovesse fare un bilancio di come il «cuore» anima e sostiene le generazioni nella società italiana, cosa direbbe?
Oggi siamo senz’altro più liberi di vent’anni fa. Dobbiamo dare ragione, almeno a noi stessi, delle scelte che facciamo, mentre l’adesione ideologica di vent’anni fa ragionava per idee ricevute e in qualche modo «consumava» il singolo, bruciandolo. Ora l’adesione è più critica ma anche più instabile: rende la politica più fragile, ma più libero l’individuo. Tuttavia, non si può non vedere che i ragazzi di 40 anni fa avevano una voglia di cambiare il mondo, di uscire dal privato, una generosità e una capacità di pensare «con» gli altri, che si è perduta.
È dunque pessimista?
Dovremmo essere capaci di recuperare l’impeto di costruzione del singolo, salvandolo dalla corazza ideologica che in forme nuove rischia sempre di imprigionarlo. A questa condizione avremmo una grandissima ricchezza, preziosa nei tempi in cui viviamo.