Il cuore. Il desiderio. L’altro. Il mistero. È incardinata su questi quattro pilastri, la riflessione centrale del Meeting di quest’anno. Don Stefano Alberto l’ha svolta da par suo. Io posso aggiungere solo il modesto punto di vista di un laico di inveterata formazione, economista di passione e studi, che ha scoperto l’uomo cercandolo negli altri prima che in se stesso. E che dall’affectio sui che sembra dominare il nostro tempo e il mondo reale ha intuito e compreso l’amore dell’incontro, l’incontro con l’avvenimento reale e carnale che muta la storia, perché fa dell’amore senza ritorno il significato dell’incarnazione.



Parto da qualcosa di molto diverso da quel grido richiamato da don Stefano e che risuona nel Caligola di Camus. “L’impossibile c’è!”. Uso l’economia, perché il dibattito rilanciato in questi anni di grande crisi si presta benissimo alla bisogna. Per quanto possa apparire singolare a chi è poco esperto di questa “scienza triste”, l’economista classico e neoclassico abitualmente non si occupa delle preferenze individuali e collettive.



Dato come esogeno un certo quadro di preferenze, l’economista analizza e opìna su che cosa avviene al mutare degli incentivi e disincentivi, nella politica fiscale e di bilancio come nel diritto societario o nelle strutture di remunerazione. È anche e soprattutto per questo, che grandi economisti arrivarono al punto di dire che sotto i totalitarismi le politiche economiche sarebbero state più efficienti – una pochissimo conosciuta pagina di Keynes in favore del nazismo agli albori – o che comunque avrebbe vinto il socialismo, vedo l’ultimo capitolo del più famoso testo di Schumpeter, scritto alla fine del 1942.



Tuttavia, è arcievidente che l’economia concreta, non quella che vive matematicamente fomalizzata nella teoria, ma nelle scelte quotidiane di milioni prima e oggi di miliardi di individui, vive esattamente di ciò di cui l’economista non si occupa: non solo cioè del dispiegarsi di preferenze date coeteris paribus, ma della loro variazione e modificazione. Senza individualismo metodologico, l’economia concreta non esiste. E non dovrebbe esistere neanche quella teorica.

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Ma ecco che a quel punto alla moderna economica si è posto l’esatto equivalente dei primi due termini di cui si occupa don Stefano: il cuore e il desiderio. La domanda centrale è diventata: quanto il variare delle preferenze dipende da Nature, e quanto da Nurture? Quanto cioè si spiega con l’innatismo e con l’eredità genetica dei nostri caratteri, e quanto invece avviene per via dell’interazione con il nostro ambiente familiare e sociale e politico, con l’istruzione e l’esperienza?

 

Per decenni, all’inizio del Novecento, la questione ha riguardato prima l’antropologia culturale, per poi estendersi alla biologia evolutiva, alla psicologia comportamentale, e infine, nell’ultimo trentennio, col progresso delle neuroscienze, ha investito direttamente l’economia con la nascita di una vera e propria specializzazione, la neuroeconomia che applica le moderne tecniche di rilevazione neurocelebrali alla comprensione dei meccanismi che ci inducono alla scelta, e dunque alla preferenza.

 

Per quanto possa sembrare singolare a molti non addetti ai lavori, anche in campo economico siamo così finiti nel pieno di un dibattito per molti versi simili a quello, diuturno, aperto da due secoli in biologia tra creazionisti ed evoluzionisti.

 

Non manca chi, per prevalenza del sistema limbico e dell’amigdala sulla corteccia frontale e prefrontale in molte scelte economiche degli individui apparentemente spacciate come razionali, deduce che in realtà a onta di ogni convinzione diversa siamo ancora ciò che per centinaia di migliaia di anni siamo stati, e cioè esseri nella cui struttura di preferenza continuano a manifestarsi comportamenti di individui specializzati per genere, maschi-cacciatori e femmine-raccoglitrici, su terreni vasti e di assicurarsi in lotta il predominio.

 

Altri sostengono – io sono tra questi – che l’evidenza neurobiologica di questo determinismo genetico non l’abbiamo affatto, e dunque ritengono l’accelerazione verticale verificatasi dall’introduzione delle tecniche agricole a quelle industriali e postindustriali si debba essenzialmente proprio alla prevalenza nell’uomo del cuore e del desiderio, rispetto all’innatismo genetico. È la natura sostanziale dell’uomo ad andare oltre il determinismo della sua apparente natura stessa. La plasticità delle nostre cellule cerebrali, cioè la loro capacità di accrescere e modificare sinapsi, reazioni e funzioni, si mostra concretamente – nella storia dell’uomo su questo pianeta di cui abbiamo evidenza – in grado di superare ogni “datità” di un’idea di natura determinista.

 

La natura determinista e l’istinto prevalentemente predatorio che all’uomo ne discenderebbe si sono poi sposati, nel terribile Novecento alle nostre spalle, con la sfiducia sistemica che neoplatonici e postfrancofortesi hanno finito per nutrire verso la téchne, industrialmente sfuggita dalle mani dell’uomo per dominarlo e asservirlo, con conseguenze nichiliste di assoluto relativismo di ogni sistema di valori, convinzioni e preferenze non riconducibili alla riproducibilità e al profitto su più vasta scala.

 

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Di questa somma di due terribili errori si nutre l’antiumanesimo filosofico, epistemologico ed ermeneutico tanto diffuso nei nostri tempi. Ed è di questa somma che razzismo e statalismo hanno cementato la via maestra della spaventosa menzogna dei più sanguinosi totalitarismi del secolo scorso. Essi hanno avuto successo perché hanno negato cuore e desiderio, e la loro pretesa di Homo Novus – fosse rosso o nero non importa – ha suscitato consensi di massa, prima che coatti, come pretesa risposta alla disperazione di un’Io che si vedeva descritto come inane, servo individualmente di una natura meschina, e incatenato collettivamente a olismi metaumani, ormai gli unici che contassero nella storia.

 

Al contrario, cuore e desiderio non solo esistono, ma continua e continuerà ad avere sempre senso ciò che la Tradizione giudaico-cristiana di cui siamo tutti figli vede in essi: l’anima. La definizione che a me laico mise in crisi, ormai molti anni fa, è quella che lessi nella Montagna dalle Sette Balze di Thomas Merton: «L’anima è cosa immateriale. È un principio di attività, è un “atto”, una “forma”, un principio energetico. È la vita del corpo, e deve anche avere una vita sua propria. Ma la vita dell’anima non si esplica in un soggetto fisico e materiale. Il paragonare quindi l’anima priva della grazia a un corpo senza vita è soltanto una metafora. Ma è anche una verità».

 

Di qui in avanti – sia voi prendiate don Giussani come maestro di esegesi, che nell’incontro con l’altro e con la sequela e l’esperienza di comunità richiama l’uomo al destino ricollocato al centro della storia dal Dio che si fa uomo apposta, sia voi seguiate frate Merton sulla via dell’uomo che sceglie la trappa perché ha capito che praticare l’amore per l’altro si invera nell’amore diretto per Dio – è il conto del Mistero. Il temporale nell’eterno, e l’eterno nel temporale. Di questo, come di molto altro del resto, don Stefano può dire e dice assai meglio di me.

 

Il legame reale di una comunione umana d’amore che è senso della carne disegna un orizzonte talmente sconfinato e non spaventevole che fatico ogni giorno con gioia a sentirmene attore finalmente obbligato perché io l’ho capito e scelto, di fronte a chi con la storicità del suo sacrificio ha dato del tu anche a me.

 

Un caro abbraccio a voi tutti, sorelle e fratelli del Meeting.

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