“The Only Child Myth”. La copertina di Time di fine Luglio è dedicata ai figli unici. Vi campeggia la significativa foto di un bambino che tiene legati a sé, per mano, le braccia di mamma e papà. L’impressione è che in realtà li tenga in pugno. «Si pensa che siano egoisti, viziati e soli. A dire il vero, stanno semplicemente bene – e sono in aumento». Il sottotitolo, in due righe, pone la questione nel modo più diretto possibile, una questione che potrebbe consumarsi sotto l’ombrellone nell’annoiata attesa del bagno dopo pranzo e che invece assurge agli onori di copertina per il fatto di diventare argomento di analisi sociologica: pare infatti ci sia una forte tendenza (in America) alla crescita delle famiglie con solo un figlio.



Anche il titolo del pezzo all’interno è inequivocabile: One and Done. Uno, e fatto! Fatto, come si dice di qualcosa che si spunta sulla lista delle cose da fare nella vita. Come dire, ci siamo tolti il pensiero… Per andare contro il luogo comune del figlio-unico-egoista-viziato-solo l’articolo offre una carrellata dei più triti luoghi comuni del pianeta: l’economia è in crisi, le spese salgono, è meglio “non diluire” ciò che si offre ai figli dovendolo dividere fra molti, non voglio rinunciare alla carriera per i figli, voglio conservarmi la libertà di viaggiare, preferisco abitare in città piuttosto che nella più economica periferia. Non vale la pena di andare oltre, anche perché queste obiezioni possono essere facilmente valutate da ciascuno (buon esercizio da ombrellone…). E’ interessante invece provare a ribaltare la prospettiva e osservare che il tipo di genitore proposto è proprio quello unico-egoista-viziato-solo. Altro che il figlio!



Genitore unico: non viene quasi mai citata l’unione fra papà e mamma, né preso in considerazione il fatto che le scelte possano essere condivise anche all’interno di buoni compromessi personali. Compromessi che nulla tolgono al singolo dentro una prospettiva di rispetto reciproco e attenzione per l’altro, ma che piuttosto arricchiscono entrambi per l’ottenimento di una meta comune. Genitore egoista: non parliamo qui di quel buon egoismo (purtroppo per lo più assente nella scena quotidiana) che potrebbe riassumersi nel motto “mi faccio gli affari miei”; egoismo sano perché non esclude mai l’altro visto che sa bene che per fare affari c’è bisogno di soci, per costruire qualcosa c’è sempre bisogno di un altro. Si tratta invece di quella forma di pensiero odiosa per la quale l’altro risulta di ostacolo, di impaccio. Due figli impacciano il doppio di uno, tre il triplo… posto che non si preveda un aumento addirittura esponenziale. Dell’impaccio ovviamente, mai dei vantaggi.



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Genitore viziato: cosa vuol dire essere viziati? Coincide col vivere di comandi. Chi è viziato non chiede, comanda e gli altri devono solo eseguire gli ordini, adattarsi, modificare ogni volere al suo. Essere un adulto viziato significa non saper cambiare i propri programmi, non ascoltare nessuno. Un genitore così non concepisce nemmeno che le idee migliori possano a volte arrivare dai figli, che un viaggio in quattro o cinque riesca ad essere imprevedibilmente più soddisfacente di quello che ha in testa lui. Ossia si esclude dalla categoria della possibilità per restare in quella del già deciso. Perdendosi forse il meglio.

 

Genitore solo: io e mio figlio, io e mia moglie, quando va bene il triangolo io-mio figlio-mia moglie. Percependosi come soli le difficoltà appaiono insormontabili, le energie inadeguate, le risorse sempre al limite. Dover contare solo su se stessi è prima una decisione del pensiero che una constatazione realistica, inibisce infatti lo sguardo aperto, il provare a chiedere, la ricerca di qualcuno affidabile cui rivolgersi e con cui condividere le scelte. Effettivamente in questa prospettiva già avere un figlio appare come un atto eroico, moltiplicarli insensato.

 

Se sia meglio essere un figlio unico oppure no è un falso problema, e pure mal posto. Ogni figlio è infatti unico, anche in una famiglia di dieci persone. Unico con le sue domande e i suoi desideri per i quali desidera risposte sempre coniugate in prima persona, mai risposte collettive. Ma soprattutto ogni figlio, per stare bene, sa che unico non coincide affatto con solo. Perché l’io è sempre in relazione. E’ trasmettere questa apertura che deve premerci rispetto ai nostri figli: che non si pensino mai soli e che siano al contempo dotati di strumenti di giudizio per valutare un altro come affidabile e benefico nella comune ricerca di un ordine nella vita. Proprio a questo altro una certa tradizione concede il nome di fratello. Senza che sia necessariamente di sangue.

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