E’ morto, dopo quattro anni di malattia, Guido Passalacqua, grande inviato de “La Repubblica” nella sede di Milano. Ma è riduttivo ricordare e parlare di Passalacqua come un inviato. Il giornale in cui lavorava, Passalacqua l’ha visto nascere, vi ha fatto i cosiddetti “numeri zero”, lo ha visto finalmente in edicola e poi l’ha visto anche crescere e ottenere un grande successo editoriale. Guido era il “decano” di “La Repubblica” nella sede milanese, sin da quando la redazione era in Piazza Cavour, proprio di fronte a quello che ancora a metà degli anni Settanta si chiamava il “palazzo dei giornali”.
Passalacqua l’aveva vista formarsi quella redazione, l’aveva diretta e alla fine, per tutti noi colleghi, Guido si identificava con l’edizione milanese di “Repubblica”. Bresciano, classe 1943, Guido Passalacqua era di carattere schivo. Sul lavoro era di grande severità a cominciare da se stesso. Ma quello che più colpiva era la sua schiettezza. Un uomo gentile ma fermo, rigoroso e di poche parole. Poi, quando il lavoro era finito, si aggregava volentieri alla “banda di giro” degli inviati e diventava simpaticissimo, riservandosi sempre battute di ironia fulminante.
Come i “giornalisti di razza”, Guido sapeva scrivere di tutto e ha probabilmente scritto di tutto e di più. Ma nella sua carriera giornalistica si è distinto nell’analisi di due fenomeni sociali e politici. Alla metà degli anni Settanta, come tutti noi, Passalacqua conviveva con il terrorismo, i gruppi armati, le Br e le varie sigle dell’estremismo sedicente rivoluzionario. Passalacqua non solo ci conviveva, per motivi professionali doveva anche analizzare e scrivere quel fenomeno.
La sua curiosità innata era pignola, a volte esasperata. Ricostruì autentiche mappe della galassia terroristica, cercò di indagare nella “zona grigia” di chi spalleggiava il brigatismo. E questo suo scrupolo professionale lo portò a subire un attentato terrificante. Una mattina di aprile del 1980, due giovani bussarono alla sua porta di casa. Entrarono spintonandolo e scaraventandolo sul letto, quindi gli spararono freddamente alle gambe. Quell’episodio restò un incubo per tutta la sua vita.
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Guido ogni tanto ne parlava, con voce piana, come se volesse ancora capire la dinamica e il perché di quella azione condotta da due giovani della costituenda "Brigata 28 marzo", quella che uccise, dopo poco più di un mese, Walter Tobagi. Per comprendere, sotto quella riservatezza e schiettezza, ci fosse tanta umanità, chi scrive ricorda il giorno del funerale di Walter e l’arrivo nella Chiesa del Rosario di Guido Passalacqua che camminava a fatica appoggiandosi su due stampelle.
Il secondo campo di indagine di Passalacqua fu la Lega Nord, quando ancora si chiamava Lega Lombarda e Umberto Bossi "pareva un matto che straparlava". Passalacqua esaminò il fenomeno dal 1984, prima ancora che il "senatur" diventasse senatore della Repubblica. Guido non scrisse mai di fenomeno folkloristico, ma andò a cercare che cosa succedesse nel Nord Italia e soprattutto che cosa ne pensassero i sindacati, che avevano il polso della situazione nelle fabbriche e sul territorio.
Fu Passalacqua ad arrivare per primo a un documento della Fiom lombarda del 1991, dove si affermava chiaramente che gli operai, soprattutto quelli un tempo erano schierati a sinistra e nel Pci, si spostavano lentamente e inesorabilmente sulle posizioni della Lega. Per tutta la prima metà degli anni Novanta, chi scrive ha passato notti e giorni con Guido, sotto la sede leghista, in "vacanze-lavoro" a Ponte di Legno in attesa di una dichiarazione del "senatur", oppure anche a tavola a discutere con Bossi in diverse città italiane e all’estero.
Tutta questa vicenda pubblica, e anche personale, Passalacqua l’ha magistralmente descritta in un libro uscito per le edizioni Mondadori nel maggio del 2009, quando era già gravemente ammalato. Forse per scusarsi del tanto tempo sottratto per lavoro alla sua famiglia, Passalacqua ha dedicato questo libro a suo figlio Tommaso.