ANGELO BAGNASCO – PROLUSIONE: Angelo Bagnasco: Il testo della prolusione del Cardinale Presidente, Sua Em.za Card. Angelo Bagnasco al  Consiglio Episcopale Permanente della CEI che si è aperto ieri, lunedì 27 settembre 2010, a Roma.

Venerati e cari Confratelli,

ci ritroviamo all’inizio del nuovo anno pastorale per continuare, nell’amicizia e nella comunione fraterna, l’opera di discernimento e di indirizzo che è – per statuto – affidata a questo Organismo. Il Consiglio Permanente, per una consistente parte, è oggi rinnovato in seguito all’avvicendamento dei Presidenti delle Commissioni Episcopali, verificatosi in occasione dell’Assemblea del maggio scorso. Ho la gioia dunque di porgere il più cordiale benvenuto, in particolare, ai nuovi componenti: con il loro apporto, cercheremo insieme di far fronte ai compiti che sono a tutti noi riservati. Ad un tempo, rinnoviamo il grazie ai Confratelli che nel precedente quinquennio hanno, con perizia e passione, arricchito il lavoro di questo organismo, e ora – ne siamo certi – continueranno ad esserci vicini con i loro consigli e la loro esperienza.



1.    Ci sentiamo in profonda sintonia con le comunità cristiane che costellano il territorio del nostro Paese e vivono queste settimane in grande fermento per l’avvio del nuovo anno pastorale. La parrocchia, quale «luogo» di generazione e di esperienza della fede – in osmosi, per quanto è possibile, con la famiglia e in aiuto della stessa – ha compiti che la inducono a «osare» continuamente, ad essere pronta a ricominciare da capo con chiunque incontri sui sentieri della vita. Ognuno, infatti, ha diritto ad imbattersi con la comunità cristiana, così da esserne interpellato e poterla vivere: per questo essa si sforza di rinnovarsi «dal di dentro», attenta e sollecita  al pensiero di Cristo, attingendo al mistero della sua presenza eucaristica, cercando con sapienza di recuperare il senso dei vari gesti qualificanti la vita cristiana, a partire dal segno della croce (cfr Benedetto XVI, All’Angelus, 30 maggio 2010). Il nostro è un tempo infatti in cui conviene non dare nulla per scontato. Con ragionevole flessibilità, ed entro una certa misura, la comunità parrocchiale modula le proprie proposte in considerazione dei ritmi variegati della società di oggi. Anche attraverso una «pastorale occasionale», si fa attenta al «frammento» e, chinandosi su ogni «germoglio», gli fa spazio e ne difende la vitalità.
Per la verità, le nostre parrocchie – in generale – sono simili a cantieri che non chiudono mai. Quasi tutte si propongono anche nel tempo estivo; saremmo tentati di dire che in questa estate – ancor più che in passato – le case parrocchiali, le strutture di soggiorno specialmente montano, gli oratori e patronati, con il proprio corredo di strutture per lo sport e il gioco, si sono riempiti come non mai. E questo grazie a programmazioni finalizzate sempre all’educazione, in cui la presenza di animatori, spesso adulti e genitori, è preziosa garanzia di arricchenti scambi fra le generazioni. La Chiesa mette a servizio il patrimonio educativo che le è proprio e accompagna i giovani a sperimentare se stessi, la loro energia di vita,  senza eludere i propri disagi e le proprie inquietudini. Pure a livello di adulti e di famiglie si vanno – da anni – sperimentando formule di incontro estivo in cui si fondono insieme esigenze diverse, dal riposo alla ricarica religiosa e formativa, con importanti risultati in ordine al confronto delle esperienze e a una riflessione meglio ragionata. C’è da dire poi che le comunità cristiane incastonate nelle località di turismo, e sono davvero molte, hanno da tempo imparato a farsi interpreti non solo di momenti spirituali e liturgici particolarmente curati, ma anche di una domanda di vacanze culturali che una fetta sempre più rilevante di popolazione esprime.



 

 

2.    Ma il nostro sguardo si allarga subito alla dimensione della Chiesa universale, la quale negli ultimi mesi – com’è noto – è stata interessata dall’emergere di vicende umilianti e dolorose. Proprio in questo frangente, però, abbiamo sperimentato la grazia che Pietro è per la Chiesa. Ancora una volta, con il suo temperamento mite e quasi schivo, e in forza della sua energia spirituale come dell’attitudine intellettuale ad andare al centro delle questioni, Benedetto XVI si è portato innanzi a tutti, e in una visione dinamica della fede ha indicato nel Signore Gesù colui che «cammina avanti a noi, ci precede, ci mostra la strada» (Omelia ai Membri della Pontificia Commissione Biblica, 15 aprile 2010); ha ricordato che solo «nella grande prospettiva della vita eterna il Cristianesimo rivela tutto il suo senso» (ib). Come a dire: i problemi possono anche attanagliarci il cuore e causare sofferenze acute, ma il dolore deve aprirci ad una nuova adesione, ad un “sì” più intenso alla volontà del nostro Maestro e Signore. Ci ricorda che  ogni evento  chiama ad una incessante conversione. È il punto che sta a cuore al Papa: «Dobbiamo ri-imparare proprio questo essenziale: la conversione» (Ai giornalisti durante il volo verso il Portogallo, 11 maggio 2010). Cioè, la metànoia. Questa è «la vera e fondamentale risposta che la Chiesa deve esprimere, che noi, che ogni singolo, dobbiamo dare in questa situazione» (ib). Occorre dunque «riconoscere quanto è sbagliato nella nostra vita, aprirsi al perdono, prepararsi al perdono, lasciarsi trasformare. Il dolore della penitenza, cioè della purificazione, della trasformazione, questo dolore è grazia, perché è rinnovamento» (Omelia cit.). Si trova indicata qui, con il pàthos che essa esige, la vera fondamentale riforma della Chiesa, quella che si pone – e l’hanno insegnato tutti i veri riformatori – come requisito-base di qualsiasi vero rinnovamento ecclesiale. Il che, per Benedetto XVI, deve anzitutto concepirsi non nel confronto con il mondo, ma in rapporto a Cristo. È Lui il vero parametro, non altri e non altro. Parlando della figura di santa Ildegarda, e criticando la pretesa dei càtari, il Papa appena qualche settimana fa ha ripetuto un concetto a lui molto caro: «Un vero rinnovamento della comunità ecclesiale non si ottiene tanto con il cambiamento delle strutture, quanto con un sincero spirito di penitenza e un cammino operoso di conversione (…) Questo è un messaggio che non dovremmo mai dimenticare» (Udienza generale, 8 settembre 2010). È questo essenziale cammino di riforma, che il Papa indica e percorre davanti a tutti; che ognuno – pastori e popolo – deve abbracciare in modo netto, con rinnovata decisione e fiducia, e senza mai trascurare che «la zizzania esiste anche in seno alla Chiesa e tra coloro che il Signore ha accolto al suo servizio in modo  particolare. Ma la luce di Dio non è tramontata, il grano buono non è stato soffocato dalla semina del male» (Messaggio per l’Apertura del 2° Kirchentag ecumenico tedesco, 10 maggio 2010). Il viaggio che il Santo Padre ha compiuto nel Regno Unito si è realmente rivelato un «evento storico» (Benedetto XVI, All’Udienza generale, 22 settembre 2010). Infatti, ha messo in evidenza – stavolta forse più che in altre occasioni – che la «partita» su Dio resta nella coscienza occidentale del tutto aperta. E se è vero che non ci dev’essere spazio per illusioni, non ce ne può essere neppure per pessimismi illogici e precipitosi. Il Papa stesso, tracciando un primo bilancio, ha confidato che il viaggio  confermava una sua «profonda convinzione», ossia che «le antiche nazioni dell’Europa hanno un’anima cristiana, che costituisce un tutt’uno col “genio” e la storia dei rispettivi popoli» (ib). Considerando che con i suoi discorsi egli ha inteso rivolgersi all’«intero Occidente, dialogando con le ragioni di questa civiltà» (ib), ritengo che potrebbe essere utile riprendere – in una prossima circostanza, al di là dunque di quanto riusciremo a fare in questo Consiglio Permanente – alcuni nuclei tematici della visita e far sì che parlino alla nostra vita e alla missione delle nostre comunità.



 

 

 

3.    Le prove – sappiamo – non abbandonano la Chiesa. In taluni momenti e in certi luoghi poi, queste prove assumono il carattere di vere e proprie persecuzioni, benché il termine, con il destino misterioso che esso evoca, vada usato con la opportuna prudenza. Anche oggi tuttavia il Vangelo si trova ad affrontare il martirio, esattamente come il Signore Gesù aveva preannunciato ai suoi discepoli (cfr Mt 10, 16-33). Un esito che finisce per riguardare soggetti con vocazione diversa: sacerdoti, religiose, e anche vescovi. Inevitabile per noi fare qui commossa memoria del confratello Luigi Padovese, vescovo francescano e amministratore apostolico dell’Anatolia. Ma il martirio non è, in questo tempo, risparmiato ai semplici cristiani, presenti in zone particolarmente critiche (come il Pakistan o certe regioni dell’India, o l’Iraq, la Nigeria, la Somalia), e neppure – paradossalmente – ai volontari che operano nelle trincee del mondo. Recentemente è successo a otto medici occidentali, caduti insieme a un loro collaboratore locale in un’imboscata talebana in Afghanistan. Fatti passare dapprima come spie, sono stati poi accusati di proselitismo, quando avevano semplicemente tra le loro cose la Bibbia. Sempre più spesso si deve prendere atto che neppure l’impegno professionale, profuso a servizio di popolazioni tra le più neglette, riesce a fare scudo. L’intolleranza religiosa assume allora la forma della cristianofobia. Uccidere appare l’unico modo per restare impermeabili al linguaggio dell’altruismo, che spaventa i violenti e inevitabilmente li eccita (cfr Benedetto XVI, All’Udienza generale, 7 luglio 2010). Simili testimonianze, spesso bagnate dal sangue, ci obbligano a verificare la nostra esistenza, a raddrizzarla mettendola meglio in asse con il Signore Gesù. Vorremmo sperare che il mondo libero ed evoluto non continui a sottovalutare questa emergenza, ritenendola in fondo marginale o irrilevante. Ci sono peraltro Paesi, come il nostro, che si stanno attivando affinché dagli Organismi internazionali venga messo definitivamente al bando questo genere di intollerabili discriminazioni. Dal canto suo, il Santo Padre – mentre fa appello ai «responsabili delle Nazioni Unite affinché garantiscano in modo reale, senza distinzioni e ovunque, la professione pubblica e comunitaria delle convinzioni religiose di ognuno» (Discorso alla Riunione delle Opere in Aiuto alle Chiese Orientali, 25 giugno 2010) – indica proprio nella «libertà religiosa» la «via per la pace» su cui riflettere in occasione della Giornata mondiale del 1° gennaio 2011.   
In ogni caso, non accettando la sottovalutazione dei travagli e delle tribolazioni che, nei suoi figli più esposti, la Chiesa affronta in varie parti del mondo, meriterà ricordare che il vero pericolo viene da chi, insieme al corpo, uccide anche l’anima (cfr Mt 10,28). E che cosa la uccide, se non la malizia che alberga nel cuore dell’uomo (cfr Mc 7,15)? «Il danno maggiore – diceva il Papa nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo (Omelia, 29 giugno 2010) – la Chiesa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia, appannando la bellezza del suo volto». Il «non praevalebunt», che sta nella promessa finale di Cristo (cfr Mt 16,18), non può garantirci a riguardo degli «atteggiamenti negativi» dai quali talora ci lasciamo contagiare: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, divisioni…– perché garantisce la realtà della Chiesa che vive la sua unione con Cristo (cfr. Omelia cit.).
Come non pensare anche a quei sacerdoti che si sono macchiati di inqualificabili crimini, con abusi su bambini e ragazzi, segnando con ciò in maniera profonda le loro giovani esistenze? Dal Papa, pellegrino in terra inglese, sono ripetutamente venute parole nuove e dure di condanna per i responsabili di questi atti. Al centro delle sue preoccupazioni tuttavia, egli ha posto le vittime, le cui «immense sofferenze causate dall’abuso […], specialmente nella Chiesa e da parte dei suoi ministri», ha inteso collegare al mistero della sofferenza di Cristo (cfr Omelia nella Cattedrale di Westminster, 18 settembre 2010). Il suo parlare sincero e disarmato, che nulla nasconde anche di ciò che è fortemente amaro; il suo rivelarsi realmente determinato a rimuovere dal costume ecclesiale un delitto angosciante; il suo umile metter mano alle regole, per renderle più cogenti, com’è accaduto con le nuove norme “De gravioribus delictis”, senza tuttavia mistificare i dati di una condizione – quella del pedofilo – esistenzialmente tragica… sono alcune delle vibrazioni che il Papa è riuscito a trasmettere, e che in una congiuntura particolarmente critica gli hanno procurato un raggio di interlocuzione per nulla scontato. È ciò, d’altra parte, che lo rende sempre più caro al popolo cristiano e spinge anche impensabili osservatori ad apprezzarne il messaggio, secondo un profilo meno angusto. Le sue parole – verso i responsabili e verso le vittime – sono anche le nostre, mentre come Vescovi, sempre alla luce delle direttive della Santa Sede, continuiamo quell’opera di più esigente discernimento e di rigorosa formazione dei candidati al sacerdozio, di accompagnamento del nostro clero, di decisa vigilanza, di intervento, di sostegno umano e cristiano per tutti.

 

4.    Nel cuore dell’estate, veniva dato l’annuncio dell’istituzione di un nuovo Organismo della Curia romana – il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione – «con il compito precipuo di promuovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi dove è già risuonato il primo annuncio della fede e […] si stanno vivendo una progressiva secolarizzazione della fede e una sorta di “eclissi del senso di Dio”» (Benedetto XVI, Omelia cit). Nonostante alcune consuete e preconcette interpretazioni, l’iniziativa introduce un movimento nuovo, e per certi versi ardito, rispetto ad una visione rassegnata dei problemi: ricorda e conferma la chiave di impegno specificamente missionario, da cui non possono ritenersi esenti i Paesi di antica tradizione cristiana. È vero – chi lo può contestare? – che oggi bisogna fare i conti con un certo  indifferentismo religioso, ma Dio non cessa di venire incontro all’uomo, anzi, non può non farlo: è questa la sua «incapacità»! È sempre Lui che, per primo, viene a cercare l’uomo che sembra non soffrire della sua mancanza, che vive in culture a volte eccentriche e non di rado frastornanti. Ma il suo braccio non si è accorciato: Dio è Dio sempre, anche in questo tempo. Non siamo noi a doverci esibire in numeri acrobatici, è Lui a compiere il miracolo. La Chiesa semmai deve sforzarsi di essere la sua trasparenza, deve offrire il proprio innamoramento per Dio come il suo unico tesoro. In ragione di ciò, è chiamata a tessere, attraverso il filo dell’amicizia e della com-passione, relazioni sincere e personali con l’uomo d’oggi, il quale avverte, forse ancora in modo confuso, una nuova marginalità di sé nell’universo delle galassie, e dunque è attraversato da nuove insicurezze, nascoste talora dietro scostanti arroganze.
Ebbene, l’iniziativa avanzata dal Papa ha subito assunto un valore simbolico non poco eloquente. Da una parte, è approdo coerente con il cammino post-conciliare della Chiesa, in cui porta a fusione una serie di intuizioni tra le più vigili e acute degli ultimi quarant’anni; dall’altra, è vettore di nuova creatività, in grado di rilanciare in avanti la volontà di rispondere alla secolarizzazione. È la «questione Dio» il problema dell’Occidente. Il nostro Papa – fin dal solenne inizio del suo pontificato, e poi a più riprese nei Discorsi natalizi alla Curia Romana, quindi negli interventi sviluppati nel corso dell’Anno Paolino, e specialmente in occasione della Lettera del 7 luglio 2007, indirizzata ai Vescovi di tutto il mondo – ha in vario modo sottoposto alla comunità ecclesiale l’esigenza di un nuovo annuncio cristiano proprio là dove le tracce della prima evangelizzazione vanno attenuandosi. Dunque, si tratta di un’iniziativa organica alla Chiesa e congeniale al pontificato. Essa potrebbe riverberarsi in modo particolare nella comunità ecclesiale italiana, dove da quattro decenni si va declinando l’imperativo dell’evangelizzazione, con la volontà di tradurre i dettami del Concilio Vaticano II, e dove già quattro convocazioni ecclesiali hanno ri-modulato in modo inequivocabile i sentieri verso la missione. Noi sentiamo come vero che «l’uomo del terzo millennio desidera una vita autentica e piena, ha bisogno di verità, di libertà profonda, di amore gratuito» (Benedetto XVI, Omelia in San Paolo fuori le Mura, 28 giugno 2010). Dio «non è il concorrente della nostra esistenza, ma il garante» della nostra felicità (Benedetto XVI, Messaggio cit.), e per questo il suo appello interseca le dimensioni fondamentali della vita, dal lavoro al tempo libero, dalla mobilità agli affetti, sfidandole continuamente con significati inediti, come si è visto nel Convegno Ecclesiale di Verona (ottobre 2006). Più che incapsularla dentro a definizioni fredde e a programmi rigidi, la missione deve veicolare un’incandescenza. Come Chiesa pellegrina in questo Paese, ci sentiamo coinvolti a far sì che il cittadino italiano non accantoni la questione-Dio, non la rimuova ritenendola anti-umana, e lasci affiorare la nostalgia che si nasconde in essa. Per questa ragione, bisogna rivisitare l’intera attività pastorale ordinaria, assegnandole «un più ampio respiro missionario» (Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Missionaria 2010) e bisogna rivolgerci distintamente ai giovani e ai giovani adulti. Essendo importante, a tale scopo, identificare e far circolare – perché siano conosciuti e possano stimolare altri – i tentativi di nuova evangelizzazione messi in campo in varie Chiese locali, e con interlocutori diversi. Bisogna provare a dar vita, magari su scala interparrocchiale o cittadina, a esperienze artistiche o confronti strutturati, in cui le persone «possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio», magari «anche senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero» (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 21 dicembre 2009). Il Papa ha prospettato anche un nome evocativo per simili esperienze: «il cortile dei gentili», e si ha notizia che qualcosa in Europa stia per essere sperimentato. Le diramazioni che il nostro Progetto culturale ha sviluppato nell’ambito delle diocesi potrebbero rendere fattibile qualche traduzione anche da noi, facendo continuamente attenzione di ricorrere sempre al codice dell’amicizia amabile e discreta.  

 

 

5.    Esperienze, ne siamo consapevoli, che diventano possibili là dove c’è l’apporto di sacerdoti preparati, in grado di operare insieme al laicato più intraprendente. Sul profilo di questi essenziali nostri collaboratori abbiamo riflettuto a lungo nei mesi scorsi, in occasione dell’Anno Sacerdotale, indetto per i centocinquant’anni dalla morte del Santo Curato d’Ars, figura tra le più emblematiche del cattolicesimo di antico retaggio cristiano. Si è trattato di un’iniziativa provvidenziale che, affacciandosi nel momento più delicato, ci ha aiutato ad identificare la giusta prospettiva per questioni, come la pedofilia, di recente evidenziatasi in modo traumatico. È stato realmente un tempo di grazia che ha toccato le Chiese locali e i singoli presbitèri, e ha spesso coinvolto anche le comunità e il laicato, al punto che non avrei esitazione a dire che il sacerdote oggi è più capito e amato. Certo abbiamo sofferto e ancora soffriamo, ma sappiamo che, con la grazia di Dio, la sofferenza non è mai inutile. Per questo motivo, il 28 maggio scorso, abbiamo indirizzato – a nome dei confratelli Vescovi – una Lettera a tutti i sacerdoti d’Italia, con la quale intendevamo soprattutto ringraziarli per esserci, e dire loro che siamo fieri dei nostri preti. In nulla infatti è sminuita la nostra stima e la nostra considerazione. Semmai, come Vescovi, ci siamo interrogati su come possiamo ancor meglio tradurre il nostro legame sacramentale e affettivo con loro, e come dare maggior efficacia alle relazioni interne al nostro presbiterio. Anche per questo le figure di Pastori santi restano per noi riferimenti vivi e vitali e non a caso Benedetto XVI ha indicato san Giuseppe Cafasso come icona per il dopo Anno Sacerdotale (cfr Udienza generale, 30 giugno 2010).
Il sacerdozio comporta un continuo e costoso lavorìo interiore, al fine di perdere se stessi per ritrovarsi. Di più: il sacerdote deve arrivare all’identificazione di sé con l’”io” di Cristo: per questo «vivere l’Eucaristia nel suo senso originario, nella sua vera profondità» è l’epicentro e l’evento fontale, è la «scuola di vita, è la sicura protezione contro ogni tentazione di clericalismo» (cfr Benedetto XVI, Colloquio con i Sacerdoti, 10 giugno 2010). E in ragione del nostro essere attratti e «tirati fuori» da Lui, il celibato è da intendersi come un andare «verso il mondo della risurrezione, verso la novità di Cristo, verso la nuova e vera vita» (ib). È la condizione affinché, a nostra volta, abbiamo a «tirare» gli altri, compreso il nostro tempo, verso il vero presente, la realizzazione plenaria, la gioia senza ombre. Per questo osiamo dire che l’Anno Sacerdotale ci ha confermati in un ideale sempre più bello e luminoso del sacerdozio. Ci ha aiutato a capire meglio perché dobbiamo fidarci della Chiesa e ad essere, ad un tempo, critici verso il mondo, critici – ben inteso – secondo il criterio della fede (ib).

 

6.    Nel nostro animo di sacerdoti, siamo angustiati per l’Italia. È anche il nostro Paese, vi sono radicate le nostre Chiese, ci vivono i nostri fedeli, da secoli vi risuona il Vangelo, con il quale saremmo pronti a dare la nostra stessa vita (cfr 1Ts 2,8). Anche a noi è capitato di vivere, nell’ultimo periodo, momenti di grande sconcerto e di acuta pena per discordie personali che, diventando presto pubbliche, sono andate assumendo il contorno di conflitti apparentemente insanabili; e questi sono diventati a loro volta pretesto per bloccare i pensieri di un’intera Nazione, quasi non ci fossero altre preoccupazioni, altri affanni. Siamo angustiati per l’Italia. Non per un’idea o l’altra – comunque astratte – dell’Italia, ma per l’Italia concreta, fatta di persone e comunità, ricca di risorse umane, avvezze a lavorare senza il timore della fatica, capaci di intraprendere e di creare, di applicarsi senza tregua, con fantasia e dedizione. Nazione generosa e impegnata, che però non riesce ad amarsi compiutamente, facendo fruttare al meglio sforzi e ingegno; che non si porta a compimento, in particolare in ciò che è pubblico ed è comune. Anche l’innegabile influsso di una corrente di drammatizzazione mediatica, che sembra dedita alla rappresentazione di un Paese ciclicamente depresso, finisce per condizionare l’umore generale e la considerazione di sé. Dovremmo invece essere stabilmente capaci della giusta auto-stima, senza cesure o catastrofismi, esattamente così come si è ogni giorno dedicati al lavoro che dà sostentamento alla propria famiglia. La verità delle situazioni non si sottomette a semplificazioni unilaterali, e spesso richiede un processo complesso e discreto, mentre in troppi si accontentano di piccole porzioni di verità, reali ma limitate, assolutizzate e urlate. A momenti, sembriamo appassionarci al disconoscimento reciproco, alla denigrazione vicendevole, e a quella divisione astiosa che agli osservatori appare l’anticamera dell’implosione, al punto da declassare i problemi reali e le urgenze obiettive del Paese. Alla necessaria dialettica si sostituisce la polemica inconcludente, spingendosi fino sull’orlo del peggio. Poi, alla vista dell’esito estremo, si raddrizza il tiro, ci si riprende; si tira un respiro di sollievo per scampato pericolo, finendo tuttavia – altro guaio – per tenere uno sguardo affezionato a quello che in precedenza era stato il campo di battaglia. Si preferisce indugiare con gli occhi tra le macerie, cercare finti trofei, per tornare a riprendere quanto prima la guerriglia, piuttosto che allungare lo sguardo in avanti, disciplinatamente orientato sugli obiettivi comuni, per i quali è richiesta una dedizione persistente e convergente.

 

 

7.    Nonostante alcuni risultati nel tempo, la nostra amata Italia sembra, su alcuni fronti, tornare sempre al punto di partenza: istruisce i problemi, comincia a metter mano alle soluzioni, ma non riesce a restare concentrata sull’opera fino a concluderla. Da decenni si parla di riforme, le si scandisce, e – tuttavia – quando saranno varate? Quando si arriverà al confronto serio e decisivo, quello che non è perdita di tempo, ma ricerca della mediazione più alta e sollecita possibile? Il Paese non può attardarsi: povero di risorse prime, più di altri deve far conto sull’efficienza del sistema e su una sempre più marcata valorizzazione delle risorse umane. Bisogna, per questo, avviare meccanismi di coinvolgimento e di partecipazione non fittizi. Qui, qualche interessante segnale c’è, seppure molte restano ancora le resistenze. Le sfide derivanti dalla globalizzazione impongono una quota di flessibilità e adattabilità che non può essere artificiosamente ostacolata, ma neppure strumentalmente usata per indebolire la dignità di chi lavora. Se partecipazione si vuole, ed è sempre più necessaria, occorre che vi siano i requisiti perché ogni parte in causa esprima il meglio – non il peggio – di sé. È il momento di deporre realmente i personalismi, che mai hanno a che fare con il bene comune, e di mettere in campo un supplemento di reciproca lealtà e una dose massiccia di buon senso per raggiungere il risultato non di individui, gruppi o categorie, ma del Paese. La fiducia che i cittadini esprimono verso chi li rappresenta è un onore e una responsabilità che non ammette sconti di nessun tipo. Cambiare si può. Le famiglie reagiscono, le persone crescono, e anche la collettività può farlo nella misura in cui comprende che l’esito di progresso diventa pane condiviso. E bisogna far presto! Il nostro vigoroso invito a rilevare la moralità intrinseca ai processi di innovazione non nasconde alcun conformismo. Lo facciamo non per un’idea esorbitante del nostro ruolo, ma per il comandamento che impone anche a noi di amare Dio sopra ogni cosa, e insieme – ma è solo l’altra faccia della medaglia – di difendere chi è indifeso, sia che si veda sia che non si veda ancora. Bisogna comprendere che se si ritardano le decisioni vitali, se non si accoglie integralmente la vita, se si rinviano senza giusto motivo scadenze di ordinamento, se si contribuisce ad apparati ridondanti, se si lasciano in vigore norme non solo superate ma dannose, se si eludono con malizia i sistemi di controllo, se si falcidia con mezzi impropri il concorrente, se non si pagano le tasse, se si disprezza il merito… si è nel torto, si cade nell’ingiustizia. Ma lo scopo di ogni partecipazione politica è proprio la giustizia, e per questo occorre produrre lo sforzo necessario – cui la Chiesa non mancherà moralmente di contribuire – per superare la logica del favoritismo, della non trasparenza, del tornaconto. A tutela della società ci sono le forze dell’ordine, ma è vile scaricare su di loro ciò che meglio si risolve attraverso relazioni sociali vigili e coscienziose. Quando le risorse si fanno più misurate, anche gli sprechi e il lusso ostentato diventano meno tollerabili. In qualunque campo, quando si ricoprono incarichi di visibilità, il contegno è indivisibile dal ruolo. Quando si ha responsabilità di scrittura o di parola pubblica, si può essere penetranti senza sfiorare il sopruso o scivolare nella contesa violenta. Il linguaggio in uso nella scena pubblica deve essere confacente a civiltà ed educazione. Fa malinconia l’illusione di risultare spiritosi o più “incisivi”, quando a patire le conseguenze è tutto un costume generale. Svuotare le parole, o renderle equivalenti quando non lo sono, è – a modo suo – un furto. Come Vescovi, sentiamo di dover esprimere stima e incoraggiare quanti si battono con abnegazione in politica; facciamo pressione perché si sappiano coinvolgere i giovani, pur se ciò significa circoscrivere ambizioni di chi già vi opera. Ai cattolici con doti di mente e di cuore diciamo di buttarsi nell’agone, di investire il loro patrimonio di credibilità, per rendere più credibile tutta la politica. Lasciamo volentieri ai competenti il compito di definire i modi di ingaggio e le regole proprie della convivenza. A noi tocca però segnalare come una «città» la si costruisca tutti insieme, dall’alto e dal basso, in una sfida che non scova alibi nella diserzione altrui. Le maturazioni generali hanno bisogno di avanguardie: ognuno deve interrogarsi se è chiamato a un simile compito.

 

8.    Volendo tuttavia indicare con un concetto sintetico ciò che è essenziale ad ogni «città», dobbiamo per forza evocare il bene comune, fulcro dinamico di questa visione, fondamentale baricentro di una comunità che voglia essere equilibrata. In una recente occasione mi ero permesso di confidare un «sogno», di quelli che si fanno ad occhi aperti: ossia che, senza disconoscere quanto di positivo già c’è, e magari con la cooperazione scaturente dalle esperienze presenti sul campo, possa sorgere una generazione nuova di italiani e di cattolici che sentono la cosa pubblica come fatto importante e decisivo, che credono fermamente nella politica come forma di carità autentica perché volta a segnare il destino di tutti (cfr Prolusione al Consiglio Permanente, 25 gennaio 2010). Torneremo anche in seguito su questo tema. Fin d’ora vorrei però dire quello che è il cuore, il motore di quanto andiamo ad auspicare: l’ideale cioè del bene comune (cfr Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 7). L’Italia, nel suo complesso, ha bisogno di riscoprire la bellezza del bene comune perseguito nell’azione politica come nella vita quotidiana dei cittadini. Ha bisogno di una leva di italiani, e di cattolici, che senza presunzioni aderiscono al discrimine del bene comune, danno lucentezza alla sua plausibilità, così che aiuti ad individuare le soluzioni che meritano di essere perseguite. Alla luce di questo ideale, e nella data «realtà storica i cristiani, agendo come singoli cittadini, o in forma associata, costituiscono una forza benefica e pacifica di cambiamento profondo, favorendo lo sviluppo delle potenzialità interne alla realtà stessa» (Benedetto XVI, Omelia per il Bicentenario della nascita di Leone XIII, Carpineto Romano, 5 settembre 2010). Si profila così la figura di un protagonismo costruttivo per quanti credenti, ma anche non-credenti, intendono fare la propria parte nella vita nazionale come nei municipi, nelle istituzioni sociali come nella vivace realtà civile, nella realtà del non profit come nelle associazioni culturali, oltre che naturalmente nel campo dei doveri propri del singolo: ovunque ci si collochi, la ricerca del bene comune concreto diventa una sorta di bussola, l’indice per misurare urgenze e priorità. Non a caso esso facilita, di volta in volta, l’individuazione del punto di arrivo potenzialmente più ragionevole (cfr Benedetto XVI, Discorso alle Autorità civili in Westminster Hall, 17 settembre 2010). 
Ricorrente è, nella nostra cultura pubblica, un certo interrogarsi sui cattolici: dove sono, come si pongono, cosa fanno. Anche nell’ultima estate queste domande sono ritornate. Risposte, magari interessanti, suonano spesso unilaterali, condizionate fatalmente dal punto di osservazione. Ebbene, vorremmo che fosse il bene comune la bandiera che nel cuore si serve, la divisa che consente di identificare là dove sono i cattolici, ma – ripeto – non solo loro. Non dimentichiamo, infatti, che «la ragione è capace» di distinguere «ciò che è bene fare e ciò che è bene non fare per il conseguimento di quella felicità che sta a cuore a ciascuno, e che impone anche una responsabilità verso gli altri» (Benedetto XVI, All’Udienza generale, 5 agosto 2010). È proprio l’esperienza condotta dal di dentro delle cose, in nome della ragione e quindi della morale naturale, che diventa il giudizio più evidente sul relativismo secondo cui non ci sarebbero riferimenti etici da privilegiare né alcuna gerarchia di valore. Parlando di questo tema, il Santo Padre si chiedeva se non fosse proprio qui il punto dov’è agganciata la spiegazione dei «valori non negoziabili». Che tali sono non in ragione di una pregiudiziale cattolica, che vizierebbe la comprensione oggettiva dei fatti della vita. La Chiesa, in realtà, nel suggerire valutazioni per la ricerca biomedica o sulle formazioni sociali e familiari, attinge al patrimonio comune dell’umanità, ricordando la linea di confine oltre la quale l’umanesimo si fa apparente, e il progresso si rivela essere un regresso, non rispettando i valori primi e costitutivi della civiltà: vita, famiglia, libertà religiosa e libertà educativa. Beni che sono il fondamento che garantisce ogni altro necessario valore, declinato sul versante della giustizia e della solidarietà sociale, che da sempre è nel cuore del Vangelo e della Chiesa. Quale solidarietà, ad esempio, se si rifiuta o si sopprime la vita, specialmente la più debole? È nella morale naturale che le istituzioni internazionali possono trovare un «terreno solido e duraturo» per elaborare e perfezionare la dottrina dei diritti; infatti «come potrebbe esserci un dialogo fecondo tra le culture senza valori comuni, diritti e principi stabili, universali, intesi allo stesso modo da tutti?» (Benedetto XVI, Discorso al Consiglio d’Europa, 8 settembre 2010). Il dogmatismo quale imputazione, in pratica, non regge. In una fase politica nella quale si comincia a ragionare di agenda bioetica come «rastrello» ancora schematico di un’antropologia completa da portare al confronto tra le forze politiche, e dove i cattolici variamente dislocati sono chiamati a giocare un ruolo convergente e propulsivo, non sarà male avere in serbo queste prospettive provenienti anche di recente dal Magistero. Dai responsabili nazionali dell’associazionismo cattolico sono venute, nell’ultimo periodo, indicazioni confortanti in questo senso. Confidiamo che la prossima Settimana Sociale, in programma a Reggio Calabria dal 14 al 17 ottobre, non farà mancare, dalla visuale che le è propria, un apporto di sviluppo coerente. La presenza peraltro in terra calabra di una considerevole compagine ecclesiale, rappresentativa del Paese, è fin d’ora segno della stima che tutti abbiamo verso una regione in cui si va esprimendo un’importante reazione al fenomeno malavitoso. I magistrati e le forze dell’ordine, sotto tiro proprio per la progressiva efficacia della loro azione, sappiano che la Chiesa è con loro contro la violenza oscura che uccide la speranza. Le comunità di Calabria, come di tutto il Meridione, devono sentirsi sostenute dalla solidarietà e dall’ammirazione delle Chiese sorelle, impegnate a loro volta nel far fronte ad una propagazione del fenomeno malavitoso della quale non è più lecito ormai dubitare.

 

 

9.    Una parola mi permetto di dire su alcune questioni aperte, e che hanno un chiaro rilievo antropologico. Sul versante della crisi economica, innegabile è la percezione di una più marcata fragilità, benché talune fasce di popolazione sembrino non essere state toccate dalla crisi. Da queste pure è ragionevole attendersi standard di vita consoni alla condizione generale, e una sensibilità verso le indubbie esigenze di solidarietà. Alle banche presenti nel nostro territorio sentiamo di dover chiedere che, anche sfidando un apparente paradosso, adottino criteri del massimo favore razionalmente possibile nel valutare le richieste di finanziamento avanzate dalle imprese. L’impatto sociale della crisi, per come essa si sta evolvendo, dipende ora in buona misura da un loro più sensibile interessamento. Ci auguriamo, altresì, che il diritto dei lavoratori disoccupati, in mobilità o licenziati, sia tenuto nel debito conto e il loro potenziale possa essere quanto prima reintegrato. La disponibilità delle parti a dialogare costruttivamente esiste, e non mancano in questo campo segnali concreti. È fondamentale che, nel frattempo, non siano ritirati dallo Stato gli ammortizzatori sociali. Deve in particolare stare a cuore a tutti il destino dei giovani: non si procede ignorando le loro legittime aspettative. La nostra agricoltura ha bisogno di alcuni interventi che la rinforzino, facendola tornare un settore che attrae vocazioni, non le espelle: che il territorio sia lavorato, e da esso si ricavino prodotti di qualità, è interesse generale. Qui si situa la domanda di tracciabilità dei prodotti, attraverso filiere limpide e plausibili, possibilmente più corte.
La scuola vive settimane importanti: uniamo la nostra voce a quella dei Vescovi che già si sono rivolti ai diversi attori scolastici, augurando una stagione fervida di impegno, così che i risultati superino i problemi. Non mancano, per l’università come per le scuole superiori, novità importanti che meriterà sperimentare, cogliendone tutte le possibili virtualità. Decisiva ci appare una concorde insistenza sulla qualità della scuola, attorno a cui preparazione personale dei docenti, riconoscimento della specifica professionalità, sistema di valutazione e adeguate risorse convergono quali fattori interdipendenti. Su tutto, però, è la dignità della scuola-istituzione che va salvata per ciò che, a cascata, ne deriva. Ci sono potenzialità inespresse che vanno sprigionate, al fine di realizzare una concreta libertà di educazione da parte delle famiglie, garanzia a sua volta di autentica qualità, consolidando in una logica anti-sprechi la rete di scuole e tradizioni educative di cui è ricco il nostro territorio. Lo stesso problema dei cosiddetti «precari» andrà risolto su vie di giustizia e solidarietà, prendendo tutti coscienza che meditate regole di sistema devono nel futuro impedire il riprodursi di situazioni problematiche e dolorose.
Diversi sono stati gli episodi dolorosi in ambito sanitario, con vittime innocenti e famiglie disperate. Trovare la morte per negligenza o inadeguatezza là dove si va per nascere o ricevere cure, è uno spregio non tollerabile, che offusca la dedizione di tanti professionisti. I morti sul lavoro sembrano in via di diminuzione, ma ogni singolo caso è di troppo, insopportabile per la coscienza del Paese. In particolare, è nei subappalti che va condotta la disamina in grado di condurre definitivamente fuori dall’emergenza.
La condizione delle carceri è stata e resta un fardello pesante non solo per noi – sacerdoti e Vescovi – che le visitiamo, e per coloro che quotidianamente vi operano, ma per tutti. Da tempo si parla di un “piano carceri”, intanto però ogni cittadino, anche colpevole, conserva la dignità su cui far conto per il riscatto. Ci sono imprenditori illuminati che, insieme all’autorità carceraria, stanno sperimentando formule interessanti di lavoro all’interno e di commercializzazione esterna per quanto prodotto in carcere. È una via di speranza, poiché include prospettive di riabilitazione e di concreto reinserimento.
La violenza sulle donne è drammatico fenomeno che porta a mettere sotto accusa in genere l’uomo, spesso giovane, che si fa attore di comportamenti irragionevoli e talora bestiali. C’entra qui l’educazione, ma anche l’auto-educazione che ciascuno deve acquisire per sapersi controllare, stabilendo con ogni persona rapporti di pari dignità. Anche altri gruppi sociali sono stati, purtroppo, presi di mira da gesti assurdamente violenti e discriminatori, qualche volta anche a sfondo razzista. La questione, poi, dell’ospitalità che va offerta ai Rom si è di recente imposta a livello europeo, il più idoneo ad evitare soluzioni che umilino il senso di responsabilità del continente. Sono scenari diversi di quella frontiera educativa che oggi attraversa ogni comunità, eludere la quale significa arrendersi non in una singola controversia, ma alla sfida trasversale e decisiva circa il nostro futuro.

 

10.    Il federalismo è l’importante riforma in via di definizione, delicata sotto diversi profili, anche perché irreversibile. Bisogna non nascondersi che col federalismo cresce lo spessore delle responsabilità da esercitare localmente. Gestire un Paese come il nostro in chiave federalista presuppone una diffusa capacità di selezionare con rigore gli obiettivi, scadenzarli, argomentare le scelte, e saper dire dei no anche a chi si conosce. Riuscire a rispettare i vincoli di bilancio, rimanendo attenti alle implicanze umanistiche connesse con l’amministrazione politica, diventerà un’attitudine inderogabile, che presuppone sì un’abilità tecnico-gestionale, non però questa soltanto. Diversamente prevarranno le spinte ad un contrattualismo esasperato e ad una demagogia variamente declinata. È il momento insomma di sviluppare quel confronto ampio che è richiesto dal salto culturale senza il quale non si dà riforma. E questa potrà prendere positivamente forma in una logica di lealtà reciproca, in verticale e in orizzontale, estranea alle forme del ricatto come alla catena dei risarcimenti interminabili. Meglio che tra le pieghe non si annidino equivoci o ipocrisie che nel nuovo assetto non mancherebbero di appesantire il passo comune. La riforma non deraglierà se potrà incardinarsi in un forte senso di unità e indivisibilità della Nazione: il tricolore è ben radicato nel cuore del nostro popolo.
È poi una consapevolezza acquisita che si debba procedere con una concomitante riforma fiscale. Se non si combinano insieme federalismo e sussidiarietà, ma anche sviluppo e unità nazionale, col superamento di entrambe le sindromi, del vittimismo da una parte e dell’elargizione dall’altra, la sfida difficilmente si potrà vincere. La Chiesa, con la sua capillarità e la rete delle sue istituzioni, intende fare per intero la propria parte, come in altri momenti cruciali, perché si realizzi un federalismo solidale. Preferiamo ricordare in partenza che ci sono condizioni morali e culturali indispensabili, non perché si nutrano riserve sull’ipotesi in sé, ma perché l’esperienza fa edotti su virtù e debolezze. Se ciascuna parte non si sforzerà di percepire le fondate preoccupazioni degli altri, e non sarà disposta a farsene ragionevolmente carico, non riusciremo a stringere un nuovo, necessario patto nazionale che ci vincoli moralmente e ad un tempo liberi le energie migliori. Nel centocinquantesimo dell’Unità d’Italia nulla di meno serve, come già ci permettevamo di annotare in una precedente occasione. Le celebrazioni, che nel frattempo si vanno succedendo, ci rendono ancor più persuasi che l’unità politica e istituzionale include un’unità interiore e spirituale che merita di essere perseguita come contributo vitale offerto a tutto il Paese. Il rinforzato profilo istituzionale assegnato a «Roma capitale» non può certo eludere la domanda di esemplarità, inclusiva di una vocazione unica rispetto alla coscienza del mondo.
Si accennava in precedenza alla riforma fiscale che presto sarà in cantiere. Sono in molti a sperare in criteri di maggiore equità, in un disegno di Stato né astratto né anonimo. Va da sé che, in una democrazia anche economica, chi più possiede più deve contribuire. Per il bene concreto dell’Italia, ci auguriamo sia finalmente l’occasione per centrare una riforma a vantaggio del soggetto che per tutti – aziende, sindacati, scuola… – è decisivo, cioè la famiglia, e si provveda così ad arrestarne l’impoverimento in atto da tempo, e che rischia di simboleggiare il suo declino culturale. I dati demografici possono illudere solamente coloro che vogliono illudersi. Di recente non sono mancate, come non mancheranno domani, le provocazioni che inducono a un certo risveglio. Con queste riforme lo Stato dirà ai cittadini come pensa di proiettarsi in avanti. È pur vero che nella decisione di avere figli entrano in gioco motivazioni varie e complesse di tipo culturale, e tuttavia, se dobbiamo dar credito alle statistiche, già oggi le coppie desiderano in media 2,2 figli, mentre ne nascono solo 1,4. Il che dimostra ciò che peraltro è eloquente anche dall’esperienza di Paesi prossimi al nostro: le misure economiche, messe o non messe a sostegno della famiglia, sono un fattore decisivo. Assegnare alla famiglia ciò che le serve, e non illudersi che questa farà ad oltranza scelte eroiche o – a seconda dei punti di vista – autolesionistiche, non può da alcuno essere ragionevolmente scambiato per un’opzione ideologica. La Chiesa è impegnata per promuovere anche culturalmente l’istituto familiare e per questo fortemente sconsiglia «iniziative legislative che implichino una rivalutazione di modelli alternativi della vita di coppia e della famiglia» (Benedetto XVI, Discorso al nuovo Ambasciatore di Germania, 13 settembre 2010).

 

Venerati Confratelli, termino sapendo che, oltre le cose dette, il nostro sguardo è costantemente aperto sul mondo, le sue ferite, le sue emergenze. La planimetria della fame starebbe, secondo alcuni, un po’ regredendo, ma questo paradossalmente ci ricorda che la tragedia è estirpabile. Non a caso, il dimezzamento entro il 2015 delle vittime per fame figura tra gli obiettivi che il mondo progredito si è dato, e ora bisogna saper mantenere, anche da parte del nostro Paese, evitando che si aggiungano ulteriori squilibri e ritardi. Ci sono poi gli esiti di disastri naturali, come le recenti alluvioni in Pakistan che, pur non suscitando particolare commozione nell’opinione pubblica, attendono non di meno la solidarietà dell’Occidente, come delle Chiese. In questo ambito, peraltro, non si può non convergere con chi auspica il sorgere di un centro mondiale di allerta per le catastrofi naturali, che possa aiutare i popoli a contenere i rischi di catastrofe.
Nel corso dei nostri lavori daremo il via libera alla pubblicazione degli Orientamenti pastorali per il decennio, già approvati dall’Assemblea Generale di maggio: ho preferito non trattare della sfida educativa in un punto a sé per sottolineare l’ importanza di questo atto collegiale, e anche perché di tale sfida – ce ne siamo resi conto – abbiamo in modo diretto o indiretto fin qui parlato. Nella nostra visione, non c’è traguardo personale o comunitario che non abbia una corrispondente implicanza educativa.
Sentiamo vicine le nostre Chiese: è con trepidazione che ci vedono ogni volta partire per gli impegni che hanno luogo fuori diocesi. In realtà, noi da loro non ci stacchiamo mai e mai cessiamo, attraverso modalità diverse, di essere con loro. Per la Chiesa che è in Italia, e dunque anche sul lavoro che ci attende in questi giorni, invochiamo l’assistenza dello Spirito Santo, attraverso l’intercessione di Maria, Mediatrice di ogni grazia, e dei Santi nostri Patroni.

 

 

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