Non credo che potranno sorgere polemiche sulla scelta, operata dai medici della clinica S. Anna di Torino, di tenere artificialmente in vita la povera Idil, somala, che un devastante tumore cerebrale ha ridotto alla morte psichica mentre nel suo grembo una piccola vita prendeva forma. E sarebbe sbagliato – anche quando queste polemiche fossero sorte – raccontare, prima di tutto a noi stessi, questo avvenimento con le parole dello scontro, della contrapposizione tra questa e quella linea di principio.



Invece non bisogna essere astratti, bisogna accogliere questa novità: che anche tra i macchinari che tengono artificialmente in vita una persona può nascere un fiore di tenerezza insperato. La piccola Idil, che porterà per sempre – e non importa quanto durerà il suo “sempre”, è sempre e basta – il nome della sua sfortunata mamma, ha preso consistenza nella tragedia, e adesso è tra noi, e nonostante pesi solo 750 grammi forse ce la farà.



Intorno a questo fatto c’è, poi, tutto un romanzo familiare, perché parte della famiglia di Idil vive in Somalia in condizioni difficili, e il figlio maggiore della povera donna, che ha nove anni, per consuetudine religiosa (la famiglia è islamica) dovrebbe venire a rendere omaggio alla mamma, che presumibilmente tra poco sarà morta. Ma il bambino è per i suoi fratelli come “la luce degli occhi”, e non può muoversi.

Ma il padre della bambina ha imparato in fretta a capire quello che conta davvero, e ai giornalisti ha detto queste parole straordinarie: “Cosa dirò a mia figlia quando sarà grande? Che è un miracolo vivente”.



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Che differenza tra l’immagine dell’islam che ci viene da questo padre e quella di violenza ottusa e perfida menzogna che ci viene trasmessa dai media! La consistenza di tutta questa storia è che la piccola Idil è un miracolo, che il miracolo non è un’anomalia ma è il fondamento stesso dell’esperienza umana, la sola cosa per cui la vita acquista un senso. Per questo padre la vita, nonostante il grande dolore per la perdita della moglie, ora riparte nuovamente, carica di promesse.

 

L’augurio è che la forza di questo miracolo possa farsi sentire anche presso la parte della famiglia rimasta in Somalia, che possa ridare speranza a una condizione umana di miseria che sembrerebbe disperata. Per concludere. Questa vicenda ci obbliga a ripensare al senso delle parole che usiamo. Per esempio l’avverbio artificialmente, nel cui uso si nasconde spesso l’intenzione di orientare le opinioni (artificiale uguale sbagliato, immorale eccetera).

 

Eppure c’è una bella differenza tra i procedimenti artificiali veri e propri, nei quali ogni elemento del procedimento sia controllato o, meglio, prodotto da chi compie quell’artificio, e un caso come questo, in cui di controllo ce n’è così poco che una vita umana si può sviluppare, grazie a Dio, dentro lo scafandro di un corpo che la scienza ha dichiarato morto. Così, le macchine sostengono artificialmente una vita di cui però non sanno niente, che sfugge loro, e sulla quale continuaa imperare, per fortuna (e non si sa per quanto ancora), la legge del Mistero.