Caro direttore,
La verità non sta mai su una sola riva del fiume. Basta saper guadare le acque con leggerezza e senza furore e con umiltà e la si trova su ambo i lati. Anche l’errore si posa sulle opposte rive. Così mi sento di pensare e di parlare dopo aver prima ascoltato l’intervento di Marchionne in diretta internet e poi aver letto l’editoriale di Eugenio Scalari apparso domenica 29 agosto su Repubblica.
Non condivido le tesi di Marchionne per quel che riguarda il rapporto tra capitale e lavoro nel futuro. La favola di Menenio Agrippa non ha nulla a che vedere con la partecipazione dei lavoratori, la cultura riformista sindacale e la negoziazione e nemmeno con l’azionariato dei dipendenti nelle società quotate.
La cogestione tedesca ha convissuto e convive con un sindacato combattivo on the job, nella globalizzazione, che negozia e contratta flessibilità e sacrifici senza perdere la sua autonomia culturale, così come la globalizzazione convive con un sindacato Usa – ieri e oggi – frastagliato e diviso, ma sempre culturalmente orientato all’associativismo anziché al classismo di sindacati che si auto-proclamano portatori di un interesse “generale”, che non si sa quale sia se non quello delle oligarchie che lo dominano ( Robert Michels insegna).
Ma sono sindacati, non appendici degli uffici delle pur sacrosante relazioni interne aziendali. Addirittura Cesare Romiti ha dovuto insegnare a Marchionne l’abc del pluralismo industriale e ricordargli che combattere non vuol dire annientare o dividere. La sussidiarietà non vuol dire comandare da soli, ma cooperare e non perdere mai la speranza di convincere chi non coopera: questa è l’“antropologia positiva”. La Rerum Novarum andrebbe riletta e interpretata nel suo storico valore: riserverebbe delle sorprese anche al buon Marchionne e ai suoi corifei.
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Ognuno d’altra parte partecipa al coro che preferisce. Così cantando, del resto, si scatena l’acuto irrazionale degli Scalfari di turno, corifei dell’essere sempre più à la mode di chiunque. Non è mai stato à la mode stare dalla parte delle tonache devozionali, come le chiamava uno dei miei maestri, Gabriele de Rosa, sulle orme del grande Gabriel de Bras, e le contrapponeva alle tonache istituzionali, che non sono mai unte e bisunte e son sempre dalla parte del vento che spira (o spirava) a Via Veneto e in Confindustria, mai nelle Unioni Sindacali.
Insomma, Scalfari soffre della sindrome ch’io chiamo “di Podrecca”, storico direttore de L’Asino, giornale anticlericale ottocentesco che fustigava frati e papi con violenza non solo verbale. Antonio Gramsci smascherò l’incomprensione della storia d’Italia che si celava dietro quell’anticlericalismo. Evidentemente quell’incomprensione continua, s’ accresce.
Ma veniamo al succo del discorso. Il Meeting, ha detto Scalfari, è una parata di stelle del firmamento dell’economia che sfrutta i lavoratori, antagonisti o partecipativi ch’essi siano. Nulla di più lontano dal vero: basta leggere il programma del Meeting. È una straordinaria presenza di fede, di opere e di cultura. Se sulla nostra italica stampa quotidiana, salvo poche eccezioni, ne appare spesso solo il volto relazionale-istituzionale è “colpa” della stampa medesima. Scalfari è di essa un personaggio storico importante, che ha formato una falange di combattenti. Spero che il prossimo anno ci dia un resoconto ancora più vero del volto del Meeting: quello che la stampa non racconta mai abbastanza.
Giulio Sapelli