Fu Giovanni Paolo II, dieci anni fa, a spiegare il senso della beatificazione di un papa. Lo fece in occasione della cerimonia in cui elevò alla gloria degli altari due papi diversissimi fra loro e spesso anzi contrapposti: Giovanni XXIII e Pio IX. Il primo, il papa delle grandi aperture conciliari alla modernità; il secondo, il papa del Sillabo che condannava le idee liberali. Giovanni Paolo II, proclamandoli beati il 3 settembre 2000 nella stessa cerimonia, spiegava: «La santità vive nella storia e ogni santo non è sottratto ai limiti e condizionamenti propri della nostra umanità. Beatificando un suo figlio, la Chiesa non celebra particolari opzioni storiche da lui compiute, ma piuttosto lo addita all’imitazione e alla venerazione per le sue virtù a lode della grazia divina che in esse risplende».



Allo stesso modo Benedetto XVI, apprestandosi a beatificare il suo predecessore, non intende celebrare ogni decisione del suo pontificato ma il modo “eroico” in cui il servo di Dio Karol Wojtyla visse e testimoniò le virtù cristiane. Testimonianza confermata da una fama di santità diffusa a livello popolare e suggellata dal segno di un miracolo.



C’è una grande lezione di fede e una grande lezione di realismo nella capacità della Chiesa di discernere gli atti di un pontificato dalla santità dell’uomo che siede sulla cattedra di Pietro. A fare grande agli occhi della fede papa Wojtyla non è stata in primis la sua battaglia per la liberazione dell’Europa orientale dal comunismo. Ronald Reagan ha avuto un ruolo storico pari o maggiore, ma non per questo è proposto come esempio di vita al popolo cattolico. La percezione popolare della santità del papa polacco è infatti legata, più di ogni altra cosa, all’immagine del papa sofferente che abbraccia in preghiera la Croce di Cristo: l’ex “atleta di Dio”, il papa sportivo, si scopre debole, il volto e la voce sfigurati dalla malattia, ma vive questa prova in uno spirito di totale abbandono a Dio, in forza di questo abbandono diventa più tenero, ancora più in grado di abbracciare l’umanità intera. Ed entra per questo nei cuori di quanti finora l’avevano più ammirato come grande personaggio storico che amato per quello che era, il Vicario di Cristo.
 



È questa testimonianza, “lode della grazia divina che risplende nelle sue virtù”, che Benedetto XVI riconosce con il rito della beatificazione. È questa la testimonianza che rimane nel tempo, quella che conforta e sorregge la fede dei semplici.

Di tutto il resto gli storici della Chiesa, laici e cattolici, disquisiranno a lungo. È prevedibile, ad esempio, che da qui al primo maggio sulla stampa internazionale usciranno maliziosi articoli che porranno la questione dell’appoggio dato da papa Wojtyla ai Legionari di Cristo, il cui fondatore conduceva una scandalosa doppia vita su cui toccò allo stesso cardinale Ratzinger indagare, sfidando omertà e connivenze. Altri cercheranno  di dimostrare che il papa polacco, tutto proiettato verso l’esterno, con i suoi appassionati viaggi internazionali, forse non si accorse come doveva della “sporcizia” che si depositava all’interno della casa di Dio, con la piaga della pedofilia del clero e l’opacità delle operazioni finanziarie condotte all’ombra del cupolone nello Ior. Forse un giorno comparando i due pontificati si arriverà alla conclusione che, proprio su questo terreno, più decisa e provvidenziale fu l’azione riformatrice di Benedetto XVI.

Ma tutto questo, in ogni caso, renderà solo più vero quanto il venerabile Karol Wojtyla insegnava dieci anni fa, e cioè che la Chiesa beatificando un suo figlio diventato papa non sacralizza ogni sua scelta operativa ma riconosce con gratitudine l’evidenza dell’opera di Dio nella sua vita.