E’ un lutto di massa quello cui assistiamo a livello globale per Steve Jobs. Un contagio emotivo di straordinaria potenza, un affetto pervasivo dentro cui il singolo soggetto rischia di scivolare incrementando a sua volta e nello stesso tempo l’intensità generale del fenomeno, contribuendo ad amplificarlo. Verso una mestizia collettiva e globale tanto intensa quanto poco ragionevole.



Ci sono scuole in cui è stato chiesto di far lezione con la foto di Jobs sullo schermo dei computer, Facebook è praticamente monopolizzato dall’argomento e anche insospettabili tecnodiffidenti duri e puri si stanno trasformando in convertiti dell’ultima ora. Un altro indicatore importante: St. Croix, il fornitore dei suoi famosi maglioncini neri a collo alto, ha dichiarato un’impennata delle vendite dell’articolo dal momento della dichiarazione della morte del suo grande utilizzatore. Il bisogno di vestirsi come lui ha infatti incrementato le vendite del 100%.



C’è qualcosa di troppo e probabilmente non finirà qui.

Il fattore in gioco per molti è proprio la delusione per la caduta dell’ideale. L’uomo della mela morsicata è stato infatti da anni assunto nel cielo dell’ideale: trasformato in pura icona, quando non la era affatto. Era invece un lavoratore, ossia un uomo capace di trasformare la realtà. Ma, in quanto icona, Steve questa morte non avrebbe proprio dovuto rifilarcela, da lui non ce l’aspettavamo, ci ha fatto quasi un torto personale andandosene. La delusione di fronte alla sua scomparsa viene poi scambiata per tristezza del cuore, tanto che possiamo essere colti quasi da uno sgomento oceanico e contagioso per questa fine.



Sulla bacheca di Facebook un lungo noooooooo è stato il precoce post di un amico che ha raccolto prima di tutti la notizia dai siti internazionali. E lo stesso no, come un urlo più o meno straziato, è risuonato silenzioso nel cuore di molti, di moltissimi. Ma perché mai, se ci pensiamo bene.
Io stesso non conoscevo affatto il signor Jobs, eppure mi accorgo di essere tentato di chiamarlo confidenzialmente Steve, come fosse un amico con cui ho cenato ieri sera o un collega. Di suo in realtà non so molto, so in particolare quello che le agenzie di comunicazione mi hanno fatto sapere.

Però so cosa ha detto nei suoi discorsi e soprattutto conosco bene i prodotti che ha pensato e che utilizzo ogni giorno, anche per scrivere questo pezzo. Per questi sono sinceramente grato a lui, ma esattamente come al signor Ferrero per aver inventato la più straordinaria crema spalmabile di nocciole che non si separa nella sua parte oleosa restando nel vasetto per mesi. E poi sono anche grato al signor Jobs  per aver battuto una strada che resta come indicazione per tutti.

Eppure uno strano meccanismo tenta oggi a una tristezza eccessiva, come fosse sparita una persona cara, che conoscevamo davvero, con un processo di autoalimentazione collettiva che annebbia il giudizio e il pensiero. Che porta ad accendere candele e a fare veglie, piangendo.

Jobs stesso, quando si è ritirato, ha chiesto rispetto della sua privacy, della sua malattia e della sua famiglia; La discrezione richiesta ha suscitato in quei giorni un grande dibattito. Anche questo da lui non dovevamo aspettarcelo: uomo-icona, uomo-azienda aveva il dovere di restare sotto i riflettori  E così qualche sciacallo ha voluto lo stesso fotografarlo fragile, traballante, scarnificato da una male che difficilmente lascia scampo per soddisfare una bulimia visiva in cui tutti dobbiamo poter vedere tutto.

Allo stesso modo adesso non merita di essere trasformato in ideale e soprattutto non merita l’epiteto di genio perché sarebbe riduttivo per lui: Steve Jobs è stato uno che si è dato da fare e tanto, uno che ha sempre preso iniziativa rispetto al reale. Uno come non se ne incontrano tanti in giro.

Merita allora rispetto per ciò che è stato e ammirazione per ciò che ha compiuto, soprattutto per ciò che ha prodotto col suo operare solerte e appassionato, minuzioso.

Merita persino di essere imitato nell’intraprendenza e nell’operosità. Imitazione però, non identificazione. Non riempiamoci l’armadio di maglioncini neri a collo alto.