Steve Jobs è morto, viva Steve Jobs. Quel santo laico che al mondo mancava: self made man, baciato dalla sorte perché abile e capace, secondo la mentalità tipicamente calvinista dell’americano medio, che abita in gran parte di noi; geniale, alieno alle scuole e alle regole, scontroso quel che basta per alimentare il mito, ricchissimo e abbastanza intelligente per non ostentarlo, morto nel fiore degli anni, e si sa, “muore giovane colui che al ciel è caro”. Alle lenzuolate sui giornali, agli speciali tv, alle biografie che già s’affacciano sugli scaffali delle librerie del villaggio globale, si aggiungono ora i gadget, e la mela morsicata compare come segno distintivo di specialità, grandezza, coraggio, grinta, sprezzatura, occhieggiando dalle magliette perfino di quell’accozzaglia di movimenti che prende il nome di Sel, Sinistra, ecologia e libertà.



Molto verde e una spruzzata di rosso, la mela ideale, appunto. Nichi Vendola guarda ai giovani, e i giovani, che non sanno a chi guardare, hanno scelto Steve Jobs. Intendiamoci, non è male che i nostri ragazzi viziati e infiacchiti si leggano e imparino a memoria il discorso del mago di Apple agli studenti di Stanford: ragazzi, datevi da fare, non aspettate di vivacchiare, vivete, abbiate l’audacia di stare di fronte alla realtà da uomini veri, senza farvi piegare neppure dalle avversità, che possono diventare opportunità inimmaginabili. Qualcosa di simile pare l’abbia scritta D’Annunzio, quando invitava a godere della vita assaporandola con morsi voraci, per non dire di Giovanni Paolo II, e perfino di qualche saggio professore che abbiamo incontrato per strada (ricordate “L’attimo fuggente?”).



Jobs è apparso un grande perché è stato dritto come un fuso, accompagnato dai suoi cari, davanti al mistero e al dramma più grande per ogni uomo, quello della morte, a quel che è dato sapere (e se avesse pianto, s avesse gridato “ho paura”, sarebbe stato meno grande? Goethe chiedeva la mano di un amico, per camminare senza angoscia incontro al destino. Sbagliava, era un debole?). Jobs appare un grande perché non abbiamo più nessuno, e quei pochi, per disabitudine, per pregiudizio, per sordità e miopia, non li vogliamo ascoltare (qualcuno l’ha fatto, basti pensare ai 2 milioni di ragazzi sulla spianata dei Cuatro Vientos, quest’estate, a Madrid).



Ma non facciamoci fregare da una spudorata e abilissima attività promozionale di un colosso della multimedialità, che sulla morte di Jobs garantisce i suoi introiti per gli anni a venire. Aspettiamo con timore il mausoleo, i memoriali, il libretto arancione di Jobs (era buddista, no?) con le sue massime ed aforismi, da sventolare ai prossimi cortei. Una volta, chi stava a sinistra, si contraddistingueva per una viscerale e spesso immotivata aversione al capitalismo. Una roba di pancia, che non si riusciva a placare con la ragione. Ora è vero che la società è fluida, le ideologie sono morte, e ce ne rallegriamo, ma osannare come modello esistenziale Steve Jobs da parte di chi dovrebbe stare dalla parte degli ultimi, suona un po’ strano.

Per una volta che si è trovato un uomo con gli attributi, cioè sincero e audace, lavoratore ed empatico con chi lo ascolta, perché cristallizzarlo nell’icona del profeta? Ogni epoca ha i suoi miti, e non era certo meglio il maledettismo alla James Dean. Però, la mela a morsi sulle magliette dei seguaci di Vendola qualche domanda la pone: quanto sono sperduti e soli, questi giovani che sperano che la politica risponda al loro bisogno di significato e verità; quant’è debole la nostra politica, senza  riferimenti culturali, senza radici credibili; quant’è sottile e pericoloso il veleno che certe mele contengono: ti entra entro e a poco a poco ti trasforma, ti soggioga, ti obnubila la testa e il cuore. Senza accorgertene, ti ritrovi servo, di un potere che le mele le coltiva, belle e succose, come vuole lui.