Una mamma dona una parte del suo fegato alla figlia di diciotto mesi, affetta da una grave patologia, e le ridona la vita. Una buona notizia, tra le tante cattive notizie, che inevitabilmente passa un po’ in secondo piano. Riflettiamoci, invece. Si tratta di un successo per la scienza medica, poiché interventi di questo tipo, da vivente a vivente, non sono affatto comuni, ed è un successo della sanità italiana, poiché il trapianto è stato effettuato dai medici del Bambin Gesù di Roma, un centro ospedaliero d’eccellenza per l’infanzia. Hanno preso una parte del fegato materno, un ottavo, suppergiù: un pezzo, non ci si capacita, per innestarlo come si fa con le piante nel corpicino della sua bimba, stesa su un lettino accanto.Crescerà dentro di lei, e crescerà bene, senza problemi comuni di rigetto. La memoria del corpo riconosce il sangue, i tessuti che l’hanno formata e custodita per nove mesi. Penso con tremore alla bravura dei medici, alla loro competenza e al loro coraggio, alla capacità di coniugare scienza e coscienza, audacia e prudenza. Non è scontato, se la professione medica non è innanzitutto una vocazione all’altro, a preservare la vita in ogni caso, senza accanimenti e soprattutto senza reticenze, dettate dalla paura di ritorsioni legali, in caso di insuccesso, che frenano anche le mani più abili, condannandole a terapie di routine.



Ma la breve lanciata dalle agenzie attira l’attenzione soprattutto sulla figura di quella giovane madre (24 anni), che non esita ad affrontare un’operazione delicata, a subire una menomazione importante, per salvare la sua bambina. Questo aspetto invece non mi sorprende affatto. Stupisce che susciti stupore. Quale mutazione genetica rende eccezionale ciò che dovrebbe apparire naturale, ovvio, per chiunque viva con pienezza la maternità? C’è una madre che potrebbe serenamente decidere di non voler aiutare un figlio, anche strappandosi una parte di sé? Le doglie del parto sono dolorose, e durano tutta la vita, per una madre. Quante volte donerebbe la vita stessa, e il suo cuore, per un bene anche piccolo di coloro che ha dato alla luce. Ci sono madri che si strappano il pane di bocca, che lavorano con fatiche bestiali, che accettano le umiliazioni più grandi, per i propri figli.



Che sanno perdonare sempre, e non si tratta di una sofferenza minore di quelle fisiche. Sappiamo bene che le ferite del corpo si sanano, quelle dell’anima bruciano tutta la vita. Eppure, una madre le accetta di buon grado, d’istinto.  Sicuramente la giovane mamma romana avrà avuto paura. Dell’anestesia, del male, delle conseguenze…ma avrà avuto paura soprattutto per la sua bimba, perché il suo gesto di generosità potesse non servire, non bastare. Ora che la piccola è sana, e può avere una vita lunga e serena, quella mamma non ha più paura, né ripensamenti.  Gli antichi credevano che nel fegato albergasse lo spirito vitale: non è vero, ma sarà bello dire a quella mamma che sua figlia è unita a lei ancora di più, adesso. Si sa, una mamma quando mette al mondo un figlio percepisce subito lo strappo, la nostalgia dell’abbandono. Può diventare una patologia. E’ solo una percezione psicologica, dovuta alla debolezza del momento, ad una particolare condizione ormonale. Per quella mamma non c’ stata e non ci sarà cedimento: le auguriamo di sentirsi sempre unita nella carne, non solo nel bene, alla sua creatura.

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