Il 25 ottobre la Chiesa ricorda il beato don Carlo Gnocchi, sacerdote lombardo nato a San Colombano al Lambro nel 1902 e morto a Milano nel 1956. Spesso la liturgia ambrosiana qualifica il timbro del cattolicesimo lombardo con la parola operosità. Tale la vita di don Gnocchi, spesa senza riserve per i suoi allievi del Gonzaga, per gli alpini in Russia, per i Mutilatini. Il cardinale Schuster avrebbe voluto che diventasse vescovo, padre Agostino Gemelli lo avrebbe voluto come suo collaboratore all’Università Cattolica. Ma la via di don Carlo fu diversa, anche grazie a un voto fatto in Russia e fu così che, ritornato dalla guerra, egli organizzò la sua baracca, l’opera che diede speranza e mani e piedi e occhi ai bambini feriti dai bombardamenti, che senza il suo intervento sarebbero stati abbandonati alla misera vita di chi non può più usare del proprio corpo integro.
La figura di don Gnocchi è molto popolare in Lombardia e altrove, dove sorgono le sue case di riabilitazione, e soprattutto dal 2009, quando il cardinale Tettamanzi l’ha proclamato beato in una piazza del Duomo gremita da quarantamila persone. Molte le penne nere, molti gli ammalati e i parenti delle persone beneficate, molti i cittadini comuni a cui il profilo aguzzo e gli occhi azzurri di don Carlo non sono mai svaniti dal cuore. Quegli occhi, la cui cornea fu donata per la prima volta in Italia per dare luce a un non vedente.
Don Gnocchi aveva un unico amore, il Signore. L’ha servito nei soldati, nelle loro famiglie, nei bambini mutilati. Anche nella sua malattia non ha mai smesso di essere sacerdote e di pensare attivamente a tutti. Don Giovanni Barbareschi, che lo accompagnò nei mesi di ospedale ci lascia il ricordo della sua ultima messa. Indossa la vestaglia blu usata solo per le visite del primario, sceglie come prima lettura un brano di Teilhard de Chardin, come seconda l’inno alla carità di san Paolo, per il Vangelo Giovanni: “Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici”. La messa si chiude con l’Adoro Te devote. Poi silenzio. Nessuno si muove. Manca ancora qualcosa. Don Barbareschi intuisce e intona Stelutis alpinis, il canto degli alpini, compagni di don Carlo. Struggente la melodia, le parole nella lingua del Friuli:
Se tu vens cassù tas cretis,
là che lor mi an soterà,
al è un spaz plen de stelutis,
sot di lor jo duar cuiet.
Ciol su ciol una stelute,
je a’ ricuarde ‘l nostri ben.
Tu i daras ‘ne bussadute
e po platile tal sen.
Quand che a ciase tu ses sole
e di cur tu preis par mi,
il mio spirt ator ti svole;
jo e la stele sin cun ti.
(Se tu verrai un giorno su queste pietre, dove mi hanno sotterrato, c’è un prato pieno di stelle alpine, sotto di loro io dormo quieto. Prendi una stella alpina, ti ricorderà il bene che ti voglio. Tu le darai un bacio e poi la metterai sul tuo cuore. Quando a casa tu sei sola e di cuore pregherai per me, il mio spirito volerà attorno a te; io e la stella alpina saremo con te).