Soltanto un ragazzo che correva veloce. Marco Simoncelli attraversa sulle spalle degli amici la navata della parrocchia della sua Coriano. Lui non è lì, ma aspetta che i genitori, le persone care lo lascino andare. Palloncini colorati sventolano fuori sul sagrato, e da lì, per le strade che vi s’incrociano. Palloncini a forma di numero 58, il senso del campione. Lui non è lì, ma i suoi ricci sbarazzini, quel viso da adolescente sfrontato muove tanta gente, suscita tante domande.
Bisogna riflettere sul perchè la folla si accalchi in parcheggi improvvisati, davanti ai maxischermi, perché una folla impensabile abbia fatto la fila per sfiorare la bara, nella camera ardente; una folla composta, che non va in cerca di telecamere o dimostrazioni. Non basta dire che era giovane, simpatico, buono. Di ragazzi giovani, simpatici, buoni ne muoiono tanti. Anche in modo tragico e improvviso. Ma Marco “era un grande”, dicono in tanti. Che significa? Che era un vincente, e noi viviamo in una società debole, abbiamo modelli deboli, chi vince diventa un mito e di miti abbiamo bisogno. Ma tutti quegli anziani, con gli occhi lucidi? Questo è un paese, ecco tutto. Un paese è legami, affetto, conoscenze superficiali che però si stringono per la forza di comuni radici. Dove il sindaco, il panettiere, il parroco la maestra sono alla pari, sono prima di tutto persone, non ruoli. S’incontrano al bar, al mercato, parlano dei figli, dei nonni, gioie e dolori. Se il paese s’allarga, è per contagio: in tanti vogliono farne parte, vivere un’appartenenza così.
Poi c’è lo sport, la sua sovraesposizione mediatica, che trasforma un ragazzo in eroe: è sempre stato così, fin dai tempi più antichi, gladiatori nell’arena e cavalieri in giostra. Esageriamo un po’, anche perché ci mancano punti di riferimento credibili. Ci affidiamo a un sogno, certi di seguirlo per sempre, di essere toccati dal soffio della sua grandezza. Con un pizzico di ingenuità, con buona dose di fanatismo, anche. Però, nel caso di Marco, non ce n’è bisogno. Andava alla gara delle caratelle nella festa patronale, ha ricordato il vescovo che ha officiato il rito funebre, Monsignor Lambiasi. Andava a trovare i bambini disabili di una comunità locale. Faceva le boccacce alle telecamere, parlava con tutti, era uno semplice, uno di noi, dicono tutti. Aveva una bella famiglia, che ora sta lì in piedi, con dignità, anzi confortando i presenti, ringraziando per quel figlio così speciale, così normale.
E poi c’è la morte, quella che mettiamo fuori dalla nostra vita, di cui non vogliamo parlare mai, perché fa paura, perché nascondendola ci pare di essere immortali. Che inganno. Tocca farci i conti, con la morte, e non serve esorcizzarla con le parole di una canzone. Siamo solo noi, quelli che non hanno rispetto per niente. Marco di rispetto ne aveva e ne riceve. Quelli che muoiono presto, e tanto è lo stesso. Non è vero, in tanti piangono per lui. Generazione di perdenti… e invece lui era un campione.
Tocca starci davanti con dignità e coraggio, davanti alla morte. Come il papà e la mamma di Marco. Che sono certi, e l’hanno detto, che loro figlio è in buone mani. Perché in quella maledetta pista malese, in quel momento che era tutta l’eternità, Dio c’era, e l’ha preso per mano, come ha detto il vescovo. Per potarlo sul podio più alto. Guardiamo a quel podio, adesso.