Le foto di classe sono un rito scontato, ma irrinunciabile per tutte le scuole: sempre uguali e sempre un po’ diverse, perché si cresce e si cambia, di anno in anno, quella compagna si è imbellita, quell’altra che era tanto carina si è imbruttita parecchio; un ragazzino guarda sperduto nel vuoto, l’altro, più audace, ammicca al fotografo come se fosse a Bravo Bravissimo. Per tutti è un’occasione per allungare l’intervallo, per chiacchierare e commentare con gli amici i compagni dell’altra classe, per ridere sulle mises delle maestre, così impettite, con il vestito buono. Ci tengono i ragazzi, le mamme, le nonne, e di solito ci si attrezza in anticipo, sfoderando una pettinatura speciale o indossando la maglietta alla moda. Farà piacere, da grandi, tirando fuori le foto dalla polvere di qualche cassetto, ricordare volti, caratteri, amicizie e inimicizie, simpatie e dispetti.
Stupisce e inquieta allora che nella classe di un paese vicino a Potenza, con abile regia si sia deciso di estromettere un’alunna, quella diversa, perché affetta da sindrome di Down. Foto ufficiale numero uno, la bambina compare, accanto alla maestra; foto ufficiale numero due, quella che tutti hanno comprato, quella da far vedere casa, la stessa bambina non c’è. Come mai? Una distrazione o una strategia, appunto, per accontentare i più suscettibili all’uniformità estetica, e nel contempo ottemperare al politically correct che blatera di scuole accoglienti, egualitarie, eccetera? Le maestre, balzate all’onor della cronaca da una serie di reazioni indignate, anche ad alti livelli, si difendono.
Abbiamo fatto due foto, perché da subito Elisabetta (chiamiamola così) non c’era, era in bagno, si è attardata in classe, si era distratta nel corridoi. Ma accorteci della sua mancanza, abbiamo rimediato subito, con un’altra foto, quella vera. Difficile crederlo. Dovrebbe essere il contrario, che chi necessita di più attenzioni non viene dimenticato, si sta ai suoi tempi, gli si riserva il posto più comodo, più visibile. Dunque sospettiamo che Elisabetta per quella classe costituisse un problema. Alcuni genitori si saranno lamentati, chissà, magari “rallenta il programma”, “imbarazza la mia bambina”, “ragazzi così dovrebbero andare in scuole apposite”. Probabilmente Elisabetta non viene invitata alle feste dei compagni, si fa fatica a portarla in gita, e questo è tanto più grave in un paese piccolo, dove si conoscono tutti. Forse le insegnanti hanno dovuto discutere a lungo, con il dirigente scolastico, perché proprio in quella classe, ci sono già tanti problemi, forse meglio quell’altra, e hanno subìto controvoglia la meccanica rigida dell’assegnazione dei posti.
Giusto scandalizzarsi? No. Non è giusto. Smettiamola di fingere che quel che è imposto per legge corrisponda ai sentimenti comuni, sia mentalità di tutti, risulti ovvio. Ci sono quartieri a Napoli e Palermo dove le donne prendono a sassate i poliziotti, se osano arrestare quelli che per la giustizia sono criminali, per loro sono vittime o eroi. Siamo ingiusti, gretti, meschini, la generosità si esprime al più in qualche obolo saltuario, se proprio il lavavetri non si schioda o il barbone ti si pianta davanti fuori dalla chiesa. Siamo inebetiti dall’ossessione di una bellezza standard, instillata giorno dopo giorno dalla televisione. I bambini dovrebbero essere tutti uguali. Non è vero. Sono tutti speciali e unici. E molti hanno difficoltà, di vario tipo, che meriterebbero un’accoglienza e uno sguardo attento.
Meriterebbero una scuola che educa, dove anche gli insegnanti e le famiglie vengono poco a poco educati, con pazienza, con ironia, con leggerezza. A capire che siamo dono gli uni agli altri, così come siamo, e che può capitare a tutti, per una ragione o per l’altra, di dover essere guardati con un occhio speciale, di aver bisogno di un di più. Una carità che non viene dalla legge, ma dal cuore. È il cuore che va suscitato. Nei ragazzi, certo, ma ne hanno meno bisogno. Gli adulti hanno scordato di averlo. L’unica cosa che ci consola, e non vorremmo che il troppo chiasso smentisse questo auspicio, è che Elisabetta non avrà capito o sofferto. Non perché meno sensibile o intelligente, anzi, al contrario: lei a scuola ci va volentieri, ogni sorriso le pare un regalo, ogni parola rivolta a lei apre un mondo. Non ci avrà fatto caso, o al massimo avrà pensato, che sbadati, si sono scordati di me, non importa…