Non se l’è sentita di continuare a vivere così. E, dopo aver ucciso la moglie, si è tolto la vita. Pietro Amighetti, 63enne nato e vissuto a Sala Baganza, nel parmense, ha ucciso, con un colpo di pistola, Simonetta Moisè, di 56 anni. Poi, si è puntato l’arma alla tempia ed ha premuto il grilletto. Lei, paraplegica, era immobilizzata da una malattia su una sedia a rotelle da 25 anni. Lui l’aveva sempre accudita. Negli ultimi tempi pare che le condizioni di salute della donna si siano aggravate. «Siamo di fronte a un classico caso che la psichiatria forense definisce raptus del malinconico. E’ una situazione in cui un omicidio-suicidio vien messo in atto per ragioni pietose, in una situazione in cui il livello di depressione, di malessere e malinconia ha superato la soglia di ogni umana sopportabilità», spiega, interpellato da ilSussidiario.net lo psichiatra Alessandro Meluzzi. Una tragedia, in ogni caso.
Ad informare della quale i carabinieri sono stati i vicini di casa che hanno udito due colpi di pistola sparati a distanza ravvicinata. «Episodi del genere accadono in situazioni in cui, fino ad un certo momento, c’è stata una grande capacità di reggere, anche efficacemente, ad un’elevata domanda di accoglienza e assistenza», afferma Meluzzi. «Quando l’irrompere di un ulteriore aggravio rende incapaci di continuare a fronteggiare lo stato di cose – continua -, si decide di porvi fine con un atto estremo. Che ha un duplice significato: da un parte quello di porre fine alle sofferenze della persona assistita e dall’altra quella di porre fine alle proprie e al proprio sentimento di inadeguatezza». Tutto ciò, ovviamente, avviene ad un livello di consapevolezza deteriorato rispetto al normale. «L’episodio va letto in termini psico-patologici. Altrimenti, quanto accaduto, apparirebbe incomprensibile e ingiustificabile sul piano morale. Credo che ci troviamo di fronte ad una vera e propria malattia, ad una depressione grave». Ecco cosa accade sul piano mentale: «Il motore fondamentale di questi comportamenti sono la depressione e l’angoscia, ma canalizzati verso un mal-indirizzato senso di pietà». Eppure, resta un paradosso: in vista del sommo bene, si compie un gesto che rappresenta il sommo male. «Il problema della consapevolezza di fronte all’istinto di sopravvivenza quando c’è la depressione in atto è un problema aperto» dice Meluzzi.
«Tale istinto è una pulsione che non si esclude neanche in un gulag o in un lager. Quando, tuttavia, l’istinto di vita viene sopraffatto da quello di morte, l’azione della ragione avviene secondariamente rispetto a questo stato emotivo. Non è che la morte inflitta è la conseguenza di un rigido calcolo. Il rigido calcolo è la conseguenza di una rottura che è già avvenuta sul piano emotivo». Qualcuno si potrebbe chiedere se, in un regime in cui l’eutanasia fosse autorizzata, almeno una delle due morti non si sarebbe potuta evitare. «L’eutanasia corrisponde alla totale deresponsabilizzazione, sdrammatizzazione e reificazione di un mistero», replica Meluzzi. «Questa persona non ha compiuto un atto di eutanasia ma un omicidio-suicidio in condizioni mentali che, se avessero dovuto giudicarlo su un piano medico legale, sarebbe stato ritenuto non capace di intendere e di volere. O con una capacità di intendere e volere diminuita per il grande dolore che lo affliggeva». C’è un’altra grande differenza: «l’omicidio-suicidio di Sala Baganza, di fronte al quale possiamo metterci in un atteggiamento di comprensione e di mistero, se compiuto dallo stato e dalla collettività andrebbe considerato come un orrore e nient’altro. Quest’uomo si è lasciato sommergere dall’angoscia di morte. Questo allo Stato e alla collettività non può capitare».