L’autunno, metafora della vita, è struggente come poche altre stagioni dell’anno. Ma bisogna andare in una qualche regione della vite e del vino per farsi cogliere all’improvviso da questo passaggio del creato. E non va bene neppure l’auto, che – nelle Langhe – ti nega gli odori, le nebbie che avvolgono i nebbioli. Le Langhe significano lingue, ovvero crinali di colline che si inseguono sotto le sagome delle montagne.
In queste Langhe io ho conosciuto un artista: cuoco e pittore, per tutti Cesare. Cesare Giaccone sta ad Albaretto della Torre, un paesino dell’Alta Langa, a 500 metri sul livello del mare dove ha trasformato il suo storico ristorante in un atelier del gusto e rivende i suoi aceti spettacolari curati dal figlio Oscar.
Il racconto più struggente, Cesare, me lo fece una sera davanti al caminetto dove sfrigolava un capretto sublime. La sera prima aveva trovato un tartufo, dopo aver rovistato col suo bastardino in quei boschi impenetrabili e tra i noccioleti. Appena risalito sulla strada asfaltata, ripresa la bicicletta, andò in direzione opposta della casa. Arrivato in un paese ammantato di nebbie, bussò alla porta di un amico, che faceva il vignaiolo. Era già notte fonda. L’amico venne ad aprire e lui gli mostrò la trifola. Non dissero una parola. Il padrone di casa lasciò la porta aperta e si diresse in cantina. Risalì con una bottiglia di Barolo del 1964, la stappò, prese sei uova e le porse a Cesare, mentre andò a rivestirsi. Su quelle sei uova fritte, adagiarono copiose scaglie di quell’umore intenso della terra di Langa e bevvero il Barolo. L’amicizia è una cosa così da queste parti.
Io sono onorato di avere come amico Cesare, che quest’anno mi ha concesso 13 suoi quadri bellissimi, per corredare la copertina e i mesi del mio libro quotidiano, Adesso, 366 giorni da vivere con gusto. Quando il mio amico scrittore Tony Hendra, americano, venne a trovarmi, gli chiesi cosa avesse desiderato visitare: “Cesare” mi disse. Ci andò, accompagnato da Beppe Vajra, un giovane promettente produttore di Barolo.
E quando la sera ci trovammo in albergo gli chiesi: “Com’è andata?”. “Ho vissuto una situazione molto italiana – mi disse – Cesare mi ha fatto mangiare in cucina, ha cucinato una patata alla grappa, fantastica, e poi l’ha cosparsa di tartufo”.



Rimasi in silenzio, pensando che Tony, autore di uno dei libri più belli della mia vita, Padre Joe,  avrebbe potuto chiedermi qualsiasi cosa e io l’avrei esaudita. Eppure Tony mi chiese di partecipare a un gesto di amicizia: mangiare da Cesare in cucina. Che è l’anti-consumismo per eccellenza, la celebrazione di un luogo innanzitutto e poi del gusto che irrompe nella tavola.
Mi ha poi ricordato che la cucina è fatta di tanti gesti, che assumono significati. Come Giacomo Bologna, che quando aveva a tavola gli amici, apriva solo il vino in magnum, perché l’amicizia è grande: è almeno una magnum nella dimensione della vita. Questo mi sento di raccontare mentre le vigne stremate dei colori dell’autunno – mi scriveva il “mio” Riccardo Riccardi, conte di Santa Maria di Mongrando – ci ricordano il desiderio di lasciare un segno, anche tenue, accanto a quelli di coloro che mi hanno preceduto”.

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